Parole

Danilo De Marco - Uganda: un giaciglio per la notte (2004)

Vengono chiamati “night commuters”, pendolari della notte.
E’ in grande maggioranza un popolo di bambini, anche piccolissimi, quello che dalla metà del 2002 si incammina, marciando per ore sulla pista di terra battuta che porta verso il Lacor Hospital, nel distretto di Gulu, alla frontiera col Sudan, per cercarvi un rifugio notturno.
Si allontanano dai villaggi o dai campi profughi per sottrarsi alla cattura dei “ribelli” dell’LRA, (Esercito di Resistenza del Signore), la più longeva guerriglia religiosa del continente africano, che dura da quasi 19 anni. Da lontano, nella semioscurità, affiorano tremolanti ombre sullo sfondo della luce di un sole già nascosto, le braccia protese verso la testa per tenere ben saldo l’unico loro avere: una coperta, uno straccio qualsiasi o una stuoia intrecciata. C’è chi si porta dietro anche l’inseparabile compagno d’infanzia: un orsacchiotto di panno tutto sdrucito arrivato da chissà dove.
“Vai e salvati almeno tu…”. E’ il rito che ormai si ripete ad ogni tramonto, questo delle madri. Loro rimangono nei villaggi rischiando la vita a protezione dei pochi beni…un tetto di paglia, qualche mucca. Ma per chi resta il rischio è grande. Come a Achocoro, nella regione di Lira, dove un numero imprecisato di donne che sorvegliavano le mucche sono state massacrate a colpi di macete.
All’interno dell’ospedale i bambini si sistemano come possono, sotto i porticati, nell’ampio cortile, nelle decine di tende che MSF (medici senza frontiere) ha predisposto per accoglierli. Addossati gli uni agli altri a grappoli, nel sonno, un groviglio di braccia e gambe che si intrecciano. Sembrano più sereni ora che sono assieme e tanti…
C’è anche tra i più grandi, chi non dorme, chi si è portato un quaderno ingiallito o un libro per studiare. Anche nel sicuro dell’ospedale la tensione non molla. Sparatorie appena al di là del muro fanno si che la tensione non si plachi neppure durante la notte, tanto che una sera è bastato il sospetto che alcuni “ribelli” fossero entrati nel campo per scatenare un fuggi-fuggi generale. Quando la notte ancora aleggia nell’aria e la sua ombra,il giorno, fa capolino, per il popolo dei bambini è già tempo di riprendere il viaggio di ritorno.
Dalla seconda metà del 2002, in Uganda del Nord più di 40.000 bambini si mettono in cammino ogni sera per non essere sequestrati e costretti a diventare dei “kadogo” (bambini soldato) che in lingua swhaili vuol dire “piccola cosa senza importanza”. Termine probabilmente inventato da qualche signore della guerra che è “rivelatore della poca importanza che danno ai bambini”.
Secondo un rapporto dell’Unicef, dal 1994 ad oggi sono ormai 30.000 i bambini rapiti. Sequestrati da LRA, trascinati in direzione del Sud-Sudan, nelle basi di addestramento, molti non ce la fanno ed ai primi sintomi di debolezza vengono eliminati. Assoggettati ad un regime di terrore e indottrinamento oltre che ad una formazione militare intensiva, sono addestrati dai “ribelli” ad ammazzare anche all’arma bianca, a colpi di macete o bastone. A razziare villaggi per sfamarsi.
A non riconoscere più neppure la propria gente, la propria famiglia. Le bambine costrette a diventare schiave sessuali dei comandanti.
Lo scorso 14 aprile, il vice segretario dell’Onu Jan Egeland non ha avuto reticenze nel suo intervento ai membri del Consiglio di sicurezza a descrivere questa situazione come: “la più grave crisi mondiale dimenticata”.
Negli ultimi mesi gli attacchi dei “ribelli del signore” verso i civili si sono moltiplicati, come risposta all’operazione militare “Iron Fist” (pugno di ferro) messa in atto dal governo per “farla finita con la guerriglia”. Le conseguenze sono state disastrose. Più che mai furiosi, il 5 febbraio i “ribelli” hanno attaccato il campo di Abia uccidendo 47 persone, mentre il 21 febbraio a Barlogno ne hanno massacrate 300 in maggioranza bruciate vive nelle capanne.
Nell’aprile scorso nei distretti di Kitgum e Pader, 40 donne sono state selvaggiamente uccise all’arma bianca sulla via che le portava verso i villaggi abbandonati, alla ricerca del cibo lasciato nei granai, visto che nei campi profughi il programma nutrizionale mondiale non riesce a far fronte nemmeno ad un terzo delle necessità alimentari.
Quando il 21 maggio arrivo a Gulu la situazione non è migliore. L’autobulanza di un’organizzazione umanitaria stava partendo dopo aver ricevuto la notizia del ritrovamento di alcune decine di corpi.
Ed è Elio Croce, trentino, fratello comboniano che vive da una vita in Uganda, a raccontarmi desolato: “ormai non hanno pietà: uccidono per uccidere. Gettano bimbi in fasce tra le fiamme delle capanne o li abbattono con un colpo di macete sotto gli occhi delle loro madri. Portano via gli uomini, che usano come schiavi per trasportare le merci razziate e poi li finiscono. Quelli che ritornano ai villaggi sono spesso orribilmente mutilati: recise le labbra e le orecchie”.
Taglia da montanaro, mani da muratore, uomo concreto e sensibile, Elio ha un’autobulanza di pronto intervento tutta sua: un furgone multiuso. E’ lui che corre a dare sepoltura ai cadaveri abbandonati, che va in aiuto ai feriti e li trasporta negli ospedali.
Ed è con Croce che partiamo verso il campo profughi di Pagak, dove la sera del 16 maggio i “ribelli” sono arrivati come furie uscendo all’improvviso dall’erba elefante, l’alta erba della savana africana, in silenzio per non attirare l’attenzione dei militari, armati di macete e bastoni. Il bilancio incerto è quello di 39 morti, 14 dispersi, 54 capanne bruciate. Con il capo villaggio visitiamo il campo, che ufficialmente è noto con un eufemistico nome di “villaggio protetto”. Ci fa incontrare i parenti delle vittime. Una donna anziana inginocchiata sopra tre tumuli di terra piange i suoi figli uccisi. In quei giorni si sono avuti altri spietati attacchi dei “ribelli” nei campi di Odek, Lukode, Kalabong, Abok. Più di 150 i civili uccisi.
Ma i distretti di Gulu, Lira e Kitgum non sono i soli a vivere questo inferno. A Kalongo nel distretto di Pader, estremo nord del paese, il drammatico scenario è lo stesso. Per di più la zona è raggiungibile solo con un piccolo aereo, vista la pericolosità dell’attraversamento via terra. Anche qui si assiste all’esodo quotidiano del popolo dei bambini, questa volta verso l’ospedale di Kalongo.
Nel territorio acholi il 90% della popolazione è sfollata, e il numero dei profughi è salito, dopo le ultime violenze, da mezzo milione (nel gennaio 2002) ad un milione e mezzo.
L’esercito usa ogni mezzo di persuasione per dislocare la popolazione che il più delle volte non vuole lasciare le proprie terre, (il 75% vive di agricoltura di sussistenza) e concentrarla nei campi per sfollati, dove le condizioni di vita sono intollerabili: ammassamento, miseria, alcoolismo, fame. La corruzione e gli abusi sessuali, molte volte perpetuati dall’esercito, completano il quadro di una vita impossibile. Nonostante questo, il governo si è rifiutato di dichiarare lo stato di calamità nella zona di guerra e il più delle volte non è nemmeno in grado di difendere la popolazione nei “villaggi protetti”. La ferocia sanguinaria dei “ribelli” si scaglia così a colpo sicuro contro i desplazados dei campi profughi, accusati di collaborazionismo con l’esercito. Una furia “contro tutti gli acholi dell’Uganda che non sono ‘saggi’-proclama Joseph Kony, leader visionario e sanguinario dell’ LRA che pretende di esercitare poteri magici derivati dallo Spirito Santo-. Saranno rimpiazzati dai ‘buoni’ acholi, in via di formazione qui in Sudan”. Kony si propone di voler governare l’Uganda secondo i dettami dei dieci comandamenti, che solo “una nuova e pura razza acholi” sarà in grado di realizzare.
Nonostante diversi protagonisti locali abbiano tentato di negoziare una soluzione pacifica, come ultimamente l’ARLPI, gruppo interreligioso che riunisce cattolici protestanti e musulmani, guidato all’arcivescovo Odama, i “ribelli” e il governo non si sono mai messi d’accordo per un cessate il fuoco. Per di più, mi dice padre Carlos Rodríguez che non ha esitato a mettere a rischio la propria vita per cercare una soluzione pacifica: “in più occasioni l’esercito ha attaccato le zone di contatto, compromettendo anche quei pochi progressi che erano stati fatti per il processo di pace”.
E in una di queste “imboscate” dei governativi è stata duramente coinvolta anche la delegazione di pace guidata da padre Carlos e da Giulio Albanese, direttore dell’Agenzia di stampa italiana Misna. Feriti, per tre lunghi giorni incarcerati e maltrattati.
Tuona Carlos Rodriguez, contro la stampa internazionale che: “è assente nella zona del conflitto dando così all’esercito ugandese il monopolio dell’informazione”. E il messaggio diffuso dalle fonti ufficiali è sempre lo stesso: LRA è praticamente sconfitto e la situazione è sotto controllo governativo. “Cosí è facile gioco -continua padre Carlos- mettere all’indice chi si sforza di dare un’informazione indipendente, spesso minacciato se non addirittura accusato di collaborare con i terroristi. Lo scorso 16 aprile, dopo un tardo primo intervento della comunità internazionale, Museveni ha dichiarato pubblicamente di voler porre fine al conflitto in forma negoziata, ma è mio convincimento che all’interno del governo vi sia chi spinge per una soluzione totalmente militare”.
Ma la soluzione militare fa rabbrividire, visto che i soldati “ribelli” sono per l’80% bambini, il più delle volte appena sequestrati o usati come scudi umani: dimenticati. E”kadogo” continua ad essere per tutti “una piccola cosa senza importanza”.

agosto 2005