Quand’ero bambino, mio padre mi portava a caccia con lui. D’autunno s’andava a camosci e caprioli, d’inverno con le fiale di cianuro tendevamo a martore e volpi che lui chiamava ‘i nocivi’. “Nocivi a chi?”, mi chiedo oggi. Quelle timide presenze, quasi sempre furtive e discrete, batuffoli leggeri sulla neve, non nuocevano a nessuno. A primavera, invece, nei mesi di aprile e maggio, andavamo a galli forcelli. In questa dolce stagione i maschi vivono il periodo degli amori ed è quindi facile avvicinarli e colpirli. Quando il giorno era già pieno ci calavamo nel bosco per accendere il fuoco. Mio padre era un mago in questa operazione. Affermava che bisognava essere capaci di accendere un fuoco anche sulla neve. Andava a rovistare sotto giganteschi pini, introfulandosi tra la neve e i rami come un topo, e ne usciva con un pugno di stecchini bianchi non più grandi di un fiammifero. Poi tornava ancora con due pezzettini più consistenti. Tutto veniva disposto con ordine: sotto i più sottili, quasi dei fili di legno, poi quelli medi e via via quelli più grossi. Nella costruzione a castello lasciava aperto un buco per infilarci la carta. Poi dalla giacca ‘cacciatora’ tirava fuori un giornale e ne strappava solo un lembo. “Mai sprecare!”, diceva. La sua giacca di fustagno scuro era un magazzino: spago carta temperino cartucce binocolo formaggio pane, tutto stava lì dentro.
Mauro Corona