Parole

Danilo De Marco - Mario Dondero:l’angelo necessario (2008)

Lo “sguardo” dell’Angelo necessario

Chi incontra Mario Dondero per la prima volta, vista l’energia che sprigiona, ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un ragazzo solo un po’ in là con l’età.
Poi, quando comincia a raccontare, da esperto istrione che conosce l’arte della fascinazione e della cattura, si scopre che arriva da lontano.
Ma l’età vera, come dice di lui Bernardo Valli, non bisogna andare all’anagrafe a cercarla, perché l’età vera di una persona non è legata alla data di nascita. Né allo stato delle arterie. L’età è nella mente. Nella fantasia. Sognare ancora quello che si farà da grandi, come fa Dondero.
Mario Dondero è uno dei fondatori del fotogiornalismo italiano e memoria storica di questi nostri ultimi 60 anni di vita politica e culturale.
Ancora giovanissimo, già partigiano nella Brigata Cesare Battisti in Val Dossola, nell’aprile del ‘45 scende dai monti e decide che la sua strada dovrà essere quella del giornalismo.
Si accampa a Milano condividendo uno spazio, ma anche un solo paio di scarpe buone per le “grandi” occasioni, con Ugo Mulas.
Dondero e Mulas, da autentici scapigliati diventeranno i due protagonisti del libro di Luciano Bianciardi “La vita agra”. Non poche volte saranno costretti a ‘sacrificare’ la macchina fotografica al Monte dei Pegni e col denaro recuperato correre a sviluppare e stampare le foto per portarle al giornale prima possibile. Incassare subito - all’epoca la consegna delle foto era seguita da pagamento immediato - e di corsa a recuperare il preziosissimo strumento.
Assieme frequentano il Giamaica, mitico bar di Brera dove più volte troveranno chi li aiuterà a ‘sfamarsi’. Al Giamaica si danno appuntamento gli artisti, scrittori, giornalisti e fotografi più importanti della Milano degli anni ‘50. Da Piero Manzoni a Camilla Cederna, da Alfa Castaldi a Enrico Castellani, Carlo Bavagnoli… per citarne solo alcuni.
Dondero comincia a fare cronaca, anche quella nera, ma intuisce subito che per essere incisivi nel raccontare manca qualcosa. Quel qualcosa è la macchina fotografica. Lascia allora le parole, ma non proprio definitivamente, e comincia a raccontare con le fotografie nella rivista di fotogiornalismo Le Ore. Poi con il Politecnico di Vittorini, con il Mondo di Pannunzio, con L’Illustrazione Italiana.
Nel 1954 si trasferisce a Parigi e inizia a collaborare con Le Monde, Le Nouvel Observateur, Jeune Afrique… Parigi diventerà la città amata da dove partirà per i suoi viaggi per i quarant’anni che verranno.
Fotografa a modo suo Samuel Beckett, ma anche lo immortala nel 1959 davanti alla sede delle Editions de Minuit, assieme a Claude Simon, Claude Mauriac, Jérôme Lindon, Robert Pinget, Nathalie Sarraute e Claude Ollier, i paladini dell’antiromanzo, di quella che in seguito fu chiamata la corrente del nouveau roman. Senza quella fotografia, affermò Alain Robbe-Grillet, non ci sarebbe stato il nouveau roman.
“È stato come fare una foto di classe - dice Dondero ricordando quel momento - come mettere insieme una scolaresca. In fondo, è stato per tutti un grande divertimento”.
Poi Althusser, Francis Bacon, Jeshar Kemal… accompagna Pasolini sulla scena durante i suoi films e lo fotografa in casa con la madre. Vola nel Vietnam in guerra e nella Grecia della dittatura militare. Al processo Panagulis viene arrestato. E molto altro.
Ho sempre pensato a Dondero come ad una specie di doganiere Rousseau della fotografia. Nelle sue fotografie gli orizzonti sono obliqui, sbilenchi, come potrebbe fotografarli un bambino o dipingerli uno dei pittori «primitivi» di Lionello Venturi.
Se il doganiere Rousseau fu «un allegorico costruttore di miti primordiali» e non un pittore naïf, nella libera semplicità/sostanza colta della fotografia di Dondero ritroviamo quello spessore conoscitivo che lo ho fatto diventare, e lo fa essere, cantore di una epopea del quotidiano.
Un cantore, e Mario lo sa, non deve e non può affinare solamente la tecnica per diventare così un abile artigiano che pur sapendo tutto del mondo finge di non conoscerlo e passa all’incasso. Ecco perché Mario, al di là di brevissime collaborazioni, non ha mai cercato l’indirizzo di un gallerista o di un’agenzia fotografica per preparare la sua carriera e la sicurezza economica.
Un cantore è anche sognatore, e un sognatore, che per di più in questo caso è anche un viaggiatore dotato di tante mappe umane, esplora tutto instancabilmente. Per ritrovarsi poi, come deve essere, sempre al punto di partenza. Non esistono traguardi per Mario dove arrivare prima degli altri. E soprattutto non ama i vincitori.
Mi pare chiaro quindi che in tempi di marketing sfrenato dove non c’è posto per il mistero dell’idea ma solo preoccupazione di passare all’incasso, per molti mediatori-manager dell’immagine fotografica, produttori instancabili di libri e riciclaggio di grandi mostre, le fotografie di Dondero fanno sorridere. Sono foto ‘sbagliate’.
Ma Dondero non scatta solo una fotografia, come quando dal finestrino del treno fotografa un tramonto o ferma per la strada una persona fino a quel momento sconosciuta. Non assiepa - come dice lui - gli amici, anche se da poco incontrati, in una brasserie di Montmartre perché vuole fare tante belle foto. Non scatta una foto all’esterno della sede del Genoa club nei quatieri popolari di Genova perché ne è tifoso. Certo, anche tutto questo, ma prima ancora fissa con la macchina fotografica quegli istanti del reale che altrimenti perderemmo, per renderli di nuovo possibili, mentre fruga garbatamente tra gli spigoli e le timidezze dell’umano. Ecco sorgere allora da ogni immagine una sua visione della natura, della vita, del mondo. Dondero il mondo lo vede così. O meglio: lo vorrebbe così.
Il suo sguardo riordina il visibile attraverso l’esperienza. Ed è proprio attraverso un’esperienza continua nel quotidiano, assieme alla sua grande capacità affabulatoria che Dondero trova la sua necessaria forma poetica.
Ecco allora che la sua vecchia macchina fotografica, troppe volte ricomperata perché donata al primo che gli stava simpatico, diventa solo il medium per poetare. Si tratta di svelare quella che Kant chiamava «arte nascosta» nelle pieghe più profonde dell’animo umano. Di fotografare allora, cosa che non a tutti riesce, l’utile certezza della nostra fragilità.
Quando improvvisamente, senza mai avvisare prima, appare - perché proprio di apparizione si tratta, in carne ed ossa - in qualche redazione giornalistica, con il suo tono di voce suadente e la forte propensione connaturata alla seduzione riesce a catalizzare l’attenzione su di sè e sulle cose che dice, paralizzando totalmente i lavori in corso. Terribile in questo nostro tempo misurato solo dalla produzione, dal rendimento e dal conseguente introito economico. Solo un bombarolo anarchico dell’800 riusciva ad avere risultati più “devastanti” di quelli che riesce a provocare Mario in questa nostra sofisticata e costrittiva era tecnologica.
È un procedere quasi enigmatico, nel senso edipico del termine, quello di Dondero, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura. Una capacità umana tendente oramai all’atrofia, ma che sentiamo il dovere di conservare, perché non c’è altra maniera di accedere davvero all’altro da noi.

Elisa, sua figlia, bene ha scritto quando intuisce che in Mario ci sono quattro ragazzi di vent’anni ancora pieni di passione che spingono per venire alla luce. Un bel guaio per Mario questo, quando viene trascinato da queste irrefrenabili e oscure forze giovanili. Ma un guaio ancora maggiore per chi gli sta accanto, come molte volte mi è accaduto, e poi decidere volontariamente di seguirlo.
Mario è un taumaturgo del tempo… libera il tempo dai lacci sempre più stretti di appuntamenti di lavoro, di incontri d’affari e, così facendo, riporta il senso dell’esistenza al centro di tutto per rimettere in sesto questo nostro tempo fratturato, stremato, obbligato. È l’essenzialità, l’umiltà dell’incontro: la sua grandezza è questa. Per questo Dondero è un instancabile agitatore di umanità.

Anche in Friuli oramai è di casa, e come in un racconto di Borges, l’andare e il non andare in un luogo predispone al luogo e il luogo non diventa un punto di passaggio nell’errare, ma un cerchio magico dell’esistere e dell’esistenza, nel cui centro, invisibili, colpiscono i raggi dell’appartenenza.
Nel luglio del 2008 Dondero fu invitato ad esporre, in villa Sulis a Castelnovo del Friuli, le sue ultimissime fotografie scattate in Russia a cui aveva dato come titolo “I rifugi di Lenin”. Come se a Castelnovo del Friuli un genius loci caparbio, che non si arrende alla brutale evidenza del tempo, attirasse su di sè uomini il cui motivo del loro stare al mondo è ancora quel “Sogno di una cosa” di pasoliniana memoria.
Ecco allora che la presenza di Mario Dondero, il giovanissimo partigiano Bocia, a Castelnovo del Friuli non è stata probabilmente casuale, perché, come scrive Peter Handke “credo in quei luoghi senza fama né risonanza, contraddistinti solo dal semplice fatto che là non c’è niente, intorno c’è qualcosa dappertutto. Credo nella forza di quei luoghi perché non succede più nulla e non succede ancora niente”. Luoghi che parlano nel silenzio, lavorano sotto pelle e dove ci attraggono insondabili, i raggi magici dell’appartenenza.
Da Castelnovo del Friuli, nel ‘37 del secolo ‘900… da questo luogo segnato appena sulla mappa geografica regionale, un nutrito numero di giovani partì volontaria per difendere la Repubblica Spagnola dai militari golpisti e fascisti.
Quelli che ritornarono, pochi anni… e diventarono i resistenti partigiani delle nostre montagne.
Come toccati da una maledizione, nell’immediato dopoguerra, molti furono obbligati a ripartire. Chi per un esilio politico chi in cerca di lavoro.

Giorgio Agamben scrive in un suo piccolo saggio intitolato “Il Giorno del Giudizio”, quello che lo affascina e lo incanta nelle fotografie che ama, e in particolare in quelle di Mario Dondero.
“La fotografia - dice - è per me in qualche modo il luogo del Giudizio Universale, essa rappresenta il mondo come appare nell’ultimo giorno, nel giorno della Collera”.
Non credo di condividere questo. Vedo invece nelle foto di Dondero, per dire qualcosa ancora su quel Giorno della Collera, le prime immagini, i primi bagliori di un’umanità che risorge dopo il disastro, dopo il rischio dell’annullamento totale.
Le sue sono le foto di una umanità ritrovata: contengono “un’esigenza di redenzione” come dice quasi ‘contraddicendosi’ ancora Agamben. Risvegliano quel punctum di barthiana memoria, di un’umanità che guarda dopo l’olocausto autodistruttivo che l’ha colpita, ad un mondo ancora possibile.
Questi occhi, questi volti, questi corpi fermati da Mario Dondero, sono una nuova stazione speranza. Sono quel luogo fra ” il sensibile e l’intellegibile, fra la copia e la realtà, fra il il ricordo e la speranza” di una comunità che viene.

Eccolo Mario, sulla soglia, all’improvviso e inaspettato come piace a lui.
E come accade all’angelo necessario di W. Stevens pare dire: “Sono uno come voi, e ciò che sono e so/per me come per voi è la stessa cosa”. Perché per Mario, con scarpe vissute, tasche bucate e bisaccia in spalla, solo la poesia può rappresentare le contraddizioni senza risolverle concettualmente, perché solo dietro le cose così come sono c’è la potenzialità di un’altra realtà che preme per venire alla luce.
“Un uomo che per ottant’anni abbia posseduto consapevolmente questo elemento costante offre uno spettacolo tanto terrificante quanto necessario. Egli rende vera la creazione in un modo nuovo, quasi potesse giustificarla col suo discernimento, con la sua resistenza, con la sua pazienza”.