“Mandi” è una madeleine, un profumo d’infanzia tra i monti di Carnia, col ricordo di mio padre che entrava nelle case, lo stetoscopio in mano, accolto con quel saluto e un’ombra di slivovitz che lui, astemio, non poteva rifiutare. Andava a visitare i suoi malati, a volte in malghe sperdute che con la prima neve erano raggiungibili solo con la slitta. Sono passati molti anni, un’eternità, con quel “mandi” rinchiuso nell’arca di un’altra vita che stenta a riaffiorare. Poi Danilo suonò alla mia porta e fece “clic”, uno scatto e un “mandi” dietro l’altro, senza mai interrompere il discorso che scivolava su altri binari, con la naturalezza di chi scrive di getto una virgola, un punto esclamativo, un niente che passa inosservato e fissa per sempre l’immagine di un volto che ti guarda, a volte di un’anima. Il clic soffice, grave, una briciola d’eternità sulla vecchia, cara pellicola che permette ancora l’epifania di un volto che emerge dallo sviluppo in camera oscura, è una forma di amicizia, di protesta, di allegria, di disperazione e gioia. Per questo non si separa mai dalla sua macchina fotografica, come se fosse una terza mano, sempre pronta ad alzarsi davanti al mondo che genera atrocità e incanti: altre vite tratte alla luce e sottratte al tempo.
Giovanna Ioli