Una fila di arbusti più o meno allineati dietro le dune della spiaggia segna il confine tra il mare e l’entroterra: sono fili tesi a spalliera, dai quali pendono alghe lunghe come ciocche di capelli rubati alle sirene: vengono proprio dal mare, che si diverte a giocare con alte e basse maree scoperchiando il fondo per chilometri, per riappropriarsene qualche ora dopo, e ricominciare all’infinito. In quelle pause, quando l’acqua arriva al massimo alla vita, le donne dei villaggi escono da dietro le spalliere e si inoltrano in mare.
Ne riusciranno solo dopo molte ore, trascinando sacchi massicci d’attrito con acqua a riva, scivolando più veloci dell’agile marea che ha fretta, segnandosi a sangue le mani corrose dal sale e seccate dal vento a cui non è dato tempo per rigenerarsi.
Portano vestiti svolazzanti che ad ogni passo si incollano un po’ di più al corpo modellandolo senza pudore; al ritorno hanno muscoli tesi sotto il peso di cordoni di alghe intrise d’acqua da far seccare appese. Decori sbiaditi di staccionata, in qualche giorno assumono colori pastello, colori di polvere, ciuffi lunghi come sciarpe di piumini.
Per pochi dollari c’è chi si porterà via questa loro vita: darà sapore ai menù orientali; si scioglierà nelle tisane delle diete; liscerà l’epidermide delle donne del mondo ricco miraggio di eterna giovinezza.
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