Parole

Danilo De Marco - Interno K - Kurdistan un genocidio postmoderno (1998)

Assieme a Fadime, preziosa compagna di viaggio, mi trovo nella sede del ZOG.DOR, l’organizzazione guidata da Mahmut Ozgur che cerca di aiutare le famiglie costrette alla migrazione interna. Siamo in attesa di Zahir, giovane di 25 anni, di cui già quattro passati in prigione, che sarà la nostra guida nel viaggio che stiamo per intraprendere tra le numerose tendopoli sparse nella Turchia occidentale. La sua colpa. Essere kurdo.
Durante tutto il viaggio che dura circa cinque ore, Zahir quasi non parla; Accenna solo ad una sua malattia. Ci fa capire che non si fida a parlare troppo con gente accanto. “Dopo avremo tempo”, dice.
Siamo diretti verso la parte più occidentale della Turchia, nella provincia di Edirne, a pochi chilometri dalla Grecia. Arriviamo a Kesan appena in tempo per prendere l’ultimo piccolo autobus che ci porterà in un luogo ancora a noi sconosciuto. Zahir ha il timore che qualcuno dei passeggeri denunci alla polizia il nostro arrivo. Dopo quasi un’ora, al termine di una curva in salita che sembra interminabile per il piccolo e vecchio minibus il cui motore scoppietta e fuma continuamente, in un avvallamento appena al di la del manto stradale foracchiato accanto ad una vecchia fontana campestre, ecco le tende.
Zahir fa un cenno all’autista e il piccolo bus si ferma. Scendiamo con un balzo diretto a scavalcare un ruscelletto semighiacciato ai bordi della strada. A contatto con la terra e dal vigore con cui ci siamo gettati le scarpe scompaiono dentr ad un dal fango semighiacciato.
E’ il 13 marzo, siamo a pochi chilometri dal mare ma il freddo è ancora pungente.
Avvicinandoci alle tende ci rendiamo conto che chiamarle così è un eufemismo. Pezzi di plastica, sacchi per il trasporto di generi vari tagliati o bruciacchiati in vari punti, tracce di fuliggine condensata gocciolante dai tubi di stufa arrugginiti che fuoriescono dalle tende, come denti da tempo cariati, marci. Assi di legno qua e là a sostegno di quelle che sembrano zattere instabili. Scritte e numeri di telefono stampigliati sui sacchi di recupero…tutto fa pensare alle opere di Picasso o di Burri e alla pittura di Pollock. E quel fumo mi fa capire che dentro c’è la vita, che dentro quegli imballi si consuma una delle tragedie dimenticate della nostra epoca.
Zahir ci presenta ai primi che ci vengono incontro e spiega loro il motivo della nostra presenza.
Nessun problema. Il primo cenno d’accoglienza si trasforma in fiducia e nell’invito ad entrare per il primo dei numerosissimi tè che ci saranno offerti.
Entrando nella tenda della famiglia di Zahir dopo esserci tolti le scarpe succhiate dal pantano, una nuvola pesante di calore umido ci avvolge. La stufa, un cilindro di ferro che sbuffa fumo da ogni lato, è l’unico arredo. A terra tappeti colorati e cuscini; in un angolo una pila di coperte rattoppate ma piegate in perfetto ordine. Tutto ricorda un tempo, quando questa gente viveva in una casa una vita che nonostante le enormi difficoltà senbrava normale. Ogni nucleo familiare possedeva terra ed animali sufficienti per condurre una vita dignitosa, là nella provincia di Mardin, a pochi chilometri dalla frontiera con la Siria.
Herlim, padre di Zahir, ha 42 anni. E’ stato costretto ad abbandonare la moglie Ide e cinque bambine piccole più di quattro anni fa. Da allora si sentono di tanto in tanto per telefono. Ha affittato la terra e gli animali, e con il ricavato riesce a farle vivere. Non avevo scelta -dice a voce sommessa-: l’unica possibilità perchè non distruggessero tutto quello che avevamo, casa, campi, animali, è stata quella di partire assieme ai sei figli più grandi. Mio figlio Zahir aveva già fatto quattro anni di prigione, dove si era ammalato, ed io temevo che, come minimo, la stessa sorte potesse toccare anche agli altri miei figli maschi. Sai -aggiunge ancora Herlim- i militari ci obbligano ad armarci per difendere i villaggi da quelli che loro chiamano terroristi, cioè i guerriglieri del PKK. Dovremmo insomma combattere contro la nostra gente.
Osnaf e sua moglie Ronai hanno 32 anni e cinque figli. Vengono dalla provincia di Mardin. Osnaf ha scontato quattro anni di prigione e sofferto per i lutti due fratelli uccisi in montagna mentre combattevano con la guerriglia nel novanta e ne novantatre.
Daout ha 32 anni e sua moglie Sadiye 27. Hanno cinque figli. Vengono dalla provincia di Mardin. Daout ha scontato quattro anni di prigione. Ha uno sguardo penetrante, fisso, allucinato. Solo dopo essere riusciti ad andare oltre il primo apparente aggressivo sguardo ci si accorge che trasuda dolore. Mio padre si è suicidato -dice- senza aggiungere altro. Ma quel silenzio penetrante e rumoroso parla più di ogni spiegazione.
Kamil, 52 anni, ha portato con sè le due mogli, Naie e Vazile, e le due relative famiglie. In tutto sedici figli.
La mia situazione economica era buona, commenta Kamil: avevo terre, case ed animali. Possedevo più di 350 capre……mi hanno bruciato tutto, capre comprese. Ho dei momenti in cui la rabbia è talmente grande…ma la dignità non ha prezzo.Avevo altri due figli. Sono stati uccisi, il primo dalla guerriglia mentre faceva il servizio di leva (non voleva andare sotto l’esercito turco…), l’altro dai militari mentre era con il PKK. Sul suo volto Kamil porta tutti i solchi di una vita segnata dal dolore, nonostante il relativo benessere di cui godava.
Ramazan, 28 anni, figlio di Kamil. E’ sposato con Bedia, 25 anni. Un figlio. La mia condizione economica mi ha permesso di studiare per alcuni anni, dice Ramazan, a differenza di molti altri. Ora mi trovo in questa situazione, senza casa e senza terra. Del lavoro poi non parliamo che per noi Kurdi è quasi introvabile. Non abbiamo più nulla da nessuna parte e non ci rimane che spostarci di volta in volta per cercare una briciola di lavoro. Affittiamo un grande camion in più famiglie, e ci spostiamo. E’ costoso, ma non c’è altra soluzione. E i bambini? la scuola?, chiedo a Ramazan. Impossibile mandare i bambini a scuola in queste condizioni… e poi abbiamo deciso di non far frequentare la scuola ai nostri figli. Lo sai -aggiunge- cosa si insegna nelle scuole turche? Prima si obbligano i bambini a parlare solo turco e poi si dice loro che esiste solo una nazionalità, quella turca. E poi ancora, Ataturk… Siamo anche obbligati a non vestirci più con gli abiti tradizionali, perchè in quel modo la gente dei paesi ci identificherebbe subito e per noi aumenterebbero i problemi. Quando troviamo lavoro i padroni turchi ci trattano come animali. Il nostro stipendio ammonta ad un milione di lire turche per un giorno di lavoro di almeno dodici ore [8000 lire italiane]. Se protestiamo e rivendichiamo dei diritti, i padroni turchi non ci vogliono più perchè dicono che dietro le nostre proteste c’è il PKK. Questo è quanto la propaganda del Governo è riuscita ad inculcare alla gente: kurdo, quindi terrorista. La gente ha paura di noi.
Mendo ha gli occhi bassi e il timore di guardare diritto in faccia. Mi parla dei numerosi anni passati in prigione, dove, aggiunge, veniva torturato con l’accusa di aver aiutato uomini del PKK. Mi hanno torturato molto, mi hanno torturato per molto tempo….poi Mendo si chiude in lunghi silenzi.
Arriva la sera e la tenda più grande dell’accampamento è affollata di uomini, donne e qualche bambino.
Daout comincia a cantare. Oltre ai suoi occhi, che non perdono mai uno stato di allucinazione (mi viene da pensare che forse ha visto cose di cui non vuole parlare) ora si aggiunge il lamento della sua voce sincopata. Canzoni popolari Kurde si intercalano con altre più impegnate, motivi della Resistenza del popolo Kurdo. Ho alle mie spalle , appesa ad un chiodo conficcato ad un’asse, una lampada a gas: davanti a me il bianco di decine di occhi che mi scrutano con curiosità e speranza. Tra una canzone e l’altra una fitta rete di domande sull’Europa, su quello che l’Europa fa e non fa per loro. Ma il sentimento più forte che unisce tutta questa gente è quello di sentirsi abbandonati.
Perchè l’Europa non fa niente? mi si chiede insistentemente. Rimango silenzioso e impotente….
Quando arriva il momento di partire, Fadime ed io veniamo circondati da questo popolo delle tende. Ci guardano e ci ringraziano. Ma la loro tacita richiesta ormai è chiara.

Lunedi 23 marzo arriviamo a Bursa, a sud di Istanbul, appena al di là del Bosforo.
Intanto il 21 marzo, festa del nuovo anno Kurdo, il Newroz, scontri con la polizia sono avvenuti in moltissimi luoghi del Kurdistan. A Diarbakir hanno arrestato un pacifista italiano, Dino Frisullo, e ferito altri componenti della delegazione europea.
Mehmet, responsabile locale dell’Hadep, il partito di Leyla Zana, ci ospita durante la notte mentre siamo in attesa di partire per la tendopoli che si trova alle porte della città di Yenisehir. La mia presenza di fotografo suggestiona un po’ Mehmet, che mi racconta di quando faceva lo stesso mestiere. Ho lasciato quel mestiere -dice- dopo essere stato imprigionato per più di tre anni. Ho sentito il dovere di fare qualcosa per la mia gente. Aggiunge che il momento politico è assai difficile e che il governo sta cercando tutte le scuse per mettere nuovamente fuori legge il suo partito. Abbiamo dovuto cambiargli nome già un mucchio di volte e tutti i dirigenti più preparati sono in prigione da anni. Decine e decine di militanti assassinati, altri scomparsi. Ma sembra che tutto ciò non sia sufficiente a calmare la schizofrenia persecutoria del governo turco.
La mattina dopo con una macchina ci accompagnano a Yenisehir, lontana una sessantina di chilometri. Durante il tragitto il nostro autista inizia a parlare delle minacce continue che subiscono uomini e donne, ma quello che più colpisce è il racconto che ci fa sulla distruzione di medicinali. Qualche mese addietro avevamo raccolto non senza difficoltà molti soldi per aiutare questa gente che vive accampata in condizioni disperate. Soprattutto i bambini. Sono tutti ammalati. Avevamo comperato molti medicinali. La polizia, in barba a tutti gli accordi sui diritti umani, ci ha atteso a pochi chilometri dalla tendopoli, ci ha bloccato ed ha bruciato tutto.
Mentre proseguiamo il viaggio di qua e di là della strada si scorgono alcune tende a gruppi di tre o quattro, ai bordi di immensi campi coltivati a legumi. Si intravvedono giovani, in maggioranza Kurdi, che portano i segni di una vita difficile sugli abiti e sul corpo. Sono in attesa della stagione del raccolto per trovare una miseria di lavoro. In estate ed autunno migliaia di uomini, donne e bambini, affolleranno questa campagna.
Poco lontano, in uno spazio delimitato da drappi rossi, confini invalicabili imposti dalla polizia, insuperabili anche solo per il transito, in una palude, sprofondano quelle che ora non mi sento più di chiamare tende. Ci accoglie Iusuf che vive in questo luogo da più di dieci anni. E’ riuscito, tra i pochi fortunati, a finire la costruzione di un piccolo riparo in muratura ai limiti del campo.
I funzionari e la polizia della città di Yenisehir illudono questa gente oramai in diaspora infinita permettendogli di iniziare la costruzione di un rifugio con una parvenza di casa. Poi all’improvviso arrivano e distruggono tutto. Così si accumula povertà su povertà, disperazione su disperazione. Iusuf ci esprime la sua preoccupazione per la nostra presenza. Avete l’autorizzazione della polizia per rimanere qui? ci domanda. Senza permesso non potete restare, aggiunge, ci mettereste in ulteriore difficoltà e pericolo. Ci è’ vietato parlare agli stranieri. Per una buona mezzora non vuole sapere della possibilità di una nostra permanenza.
Capisco che ancora non si fidi. Che abbia paura e tema di perdere anche quel povero rifugio che si è costruito. Con calma, grazie a Fadime che gli spiega i motivi della nostra visita, riusciamo a convincerlo. Ci concede di rimanere ma a patto di seguire scrupolosamente le sue direttive. Non dovete farvi vedere da occhi indiscreti, ci dice. Usciremo dalla casa e attraverseremo rapidamente le tende assieme, solo quando sarà il momento.
Così con infinita pazienza, frastornato da un succedersi di sillabe a me incomprensibili, attendo impaziente quel momento.
Come animali selvatici che si nascondono dietro al primo riparo, sgusciamo tra tenda e tenda. E il primo grande sacco di plastica in cui entriamo, proprio non riesco a chiamarlo tenda, è subito dietro la casa di Iusuf. Scivolando tra una plastica e l’altra, una puzza di discarica e di fogna ci investe.
Tenzile, bellissima, 20 anni, a cui hanno cambiato il nome in Yuksel, decisamente più turco, ci attende all’interno. Appena entrati Fadime ed io ci lanciamo uno sguardo. A terra quasi nulla con la conseguenza di vivere praticamente sulla terra che a seconda delle stagioni si trasforma in fanghiglia o polvere. Attorno qualche asse di legno e pezzi di plastica fanno da tetto e da pareti. Un grande contenitore di grossa latta fa da stufa…ci chiediamo come.
Un luogo invivibile dove due bambini piccoli visibilmente ammalati si aggrappano al vestito della madre. Tenzile, così vuole che la chiamiamo, ci racconta della sua disavventura, quando andò all’ospedale di Yenisehir con i figli.
Domandai al dottore di visitare i miei piccoli, e quando mi disse che erano molto malati, gli chiesi delle medicine per curarli. Me le negò. Non volle neppure darmi i nomi per poterle comperare. Il marito di Tenzile, un giovane di 23 anni, sembra terrorizzato e non vuole parlare. Dice solamente che lavora in città, ma che già da qualche mese non riceve più il magro stipendio. Poi scompare.
Usciamo dalla tenda con un nodo alla gola. Fadime ed io abbiamo capito che quei due bambini non potranno sopravvivere a lungo.
Ci fermiamo nascosti tra due teloni, e Iusuf ci spiega che i bambini hanno bisogno di latte, ma è troppo caro e possono comperarlo solo molto raramente. Così, aggiunge, pensammo di risolvere il problema comperando delle capre. Quando la polizia capì a cosa servivano cominciò a minacciarci e ci proibì di far uscire gli animali all’aperto. Ogni volta che pascolavano venivamo multati con somme enormi. Siamo stati costretti ad ucciderle ed a lasciare i nostri piccoli senza latte.
La tenda di Holibe Atay, madre di cinque bambini, è costruita solo con sacchi di recupero. All’interno si è circondati da scritte, numeri di telefono, indirizzi stampigliati…..Suo marito ci racconta quella che sembra essere un’avventura non rara. Holibe era in cinta di sette mesi e stava male. Ho trovato la forza di portarla all’ospedale Yenisehir per farla visitare. Il medico, dott. Nihat Bayrak, disse che era urgente un ricovero per il resto della gravidanza, ma che per questo ricovero bisogna pagare domandandomi una cifra che naturalmente non possedevo. Ci cacciò allora dall’ospedale. Holibe è ancora qui con me per miracolo, mentre il bambino è nato morto. In un momento d’ira mi recai nuovamente all’ospedale e minacciai il medico di denuncia per omissione di soccorso. Mi rispose con una risata sfacciata. Vai pure, disse, tanto sai già come può finire. Mi stava ricordando che sono Kurdo.
Me ne ritornai alla tendopoli trascinandomi il mio corpo come fosse un sacco vuoto.
Ali, figlio di Iusuf, sta per compiere 18 anni. Si avvicina al momento del servizio militare. Sa benissimo cosa lo aspetta: la prima linea, là, nelle montagne di Aifa. Scapperò, mi dice. Se serve scapperò per tutta la vita.
Qui il lavoro è pagato anche peggio che altrove. Per un lungo giorno di raccolta dei legumi veniamo pagati, mi spiega Iusuf, 600.000 lire turche. Praticamente lavoriamo per nulla. Quando arriva il momento della raccolta del cotone le tendopoli contano anche 10.000 persone. Un vero formicaio.
Per 100 chilogrammi di cotone ci pagano 1.500.000 lire turche. La raccolta del cotone è veramente dura. Ma che possiamo fare! Esclama Iusuf.
Ci dice di rientrare tra le sue mura. Il timore prende di nuovo il sopravvento e ci prega di ripartire il giorno dopo. La sera ci preparano da mangiare quanto hanno di meglio. Accanto al solito cilindro sbuffante ci raccogliamo assieme a tutti quelli che vengono per parlare con noi. Le storie continuano: villaggi e case bruciate, prigione, torture, amici uccisi…..
Iusuf mi fissa con il suo unico occhio ancora buono, e con un certo ritegno, senza animosità afferma: “Quando saremo riconosciuti come Kurdi, quando sarà riconosciuta la nostra cultura e avremo un nostro Stato, manderemo il conto all’Europa”.
Ritornati ad Istanbul, mentre percorriamo il centro in autobus, dopo aver scoperto che sulle carte di identità il timbro che le convalida ha due colori, blu per i turchi e rosso per i Kurdi, mi colpisce un manifesto con una fotografia ed una grande K. Se non mi è difficile identificare nella foto la lunga colonna di Kurdi iracheni in fuga sotto la minaccia di Saddam Hussein, così non è per quello che vi è scritto. Fadime è di nuovo pronta ad aiutarmi nella traduzione, spiegandomi che è un manifesto- appello del governo turco, e qui il paradosso non ha limiti, per aiutare la gente dell’Iraq settentrionale, notoriamente abitato da Kurdi.
Poichè in Turchia il termine Kurdistan non è ammesso e quindi non si può pronunciare, gli abitanti della Turchia orientale sono chiamati ” turchi di montagna “, e quel luogo geografico identificato solo con ” K “.