Parole

Danilo De Marco - Peter Handke dalla parte dei perdenti (2010)

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È un lento attraversare immagini ritrovate, questo avvicinamento verso la casa di Peter Handke a Chaville, nei dintorni di Parigi. Mezz’ora di RER, la grande metropolitana che raggiunge anche la profonda banlieue parigina, ed eccomi sbarcato in uno slargo zeppo di auto in sosta e minime presenze umane. Pochi passi: il sottopasso stradale del treno a destra dove ci si infila; appena oltre, subito a sinistra - Le Berry - piccolo bar anni ‘50, in cui si intuisce la perdita di un juke-box. Sugli scaffali mezzi vuoti poche bottiglie con alcuni bicchieri e accanto, sovrapposto alla fotografia di Rabah, l’anziano proprietario algerino, un ritratto di George Brassens.
Pochi minuti: la casa di Peter Handke. Due piani in pietra calcarea e siliciosa, la superficie dura e rugosa di un viola marrone non troppo intenso, incastonata tra il pendio del bosco di Meudon da una parte, ed un tunnel fittissimo di cipresso tuia di una quarantina di metri dall’altra. Un’immersione in una densa penombra naturale che fa strizzare gli occhi nelle giornate di sole e rallentare il passo, ma anche il ritmo interiore scandito troppe volte dalla velocità di un effimero presente che con ogni probabilità ci sfugge. Da qui si accede direttamente al cancelletto d’entrata. Un avvicinamento propedeutico non casuale questo passaggio che lascia alle spalle un mondo per entrare in un altro. È il mondo di Peter Handke, il grande scrittore della durata. Ma anche scrittore di una letteratura di responsabilità civile, e per questo vilipeso e schernito dalla stampa occidentale «opera - la sua - miope e manichea», atto «provocatorio irresponsabile e terroristico» a proposito del conflitto Jugoslavo. Con gli occhi e la sensibilità del poeta che può leggere l’essenza di una tragedia vedendo più lontano e prima degli altri, si è fatto voce fuori dal «coro uniforme di inviati speciali o politici stranieri in visita» - dice - «prima durante la guerra dei Balcani e ora in Kosovo».
Con le sue forze Peter Handke ha attraversato, camminando, quelle terre. Si è smarrito tra quelle genti; come un vagabondo solitario che si mette in cammino per imparare, per diventare altro. E infine ha messo la sua scrittura al servizio di tutti quelli a cui la parola era stata negata da, come Handke la definisce, «un’Europa senza anima».
«Con il popolo serbo» ribadisce con forza - tanto da donare un premio di 50.000 euro ai bambini della minuscola enclave serba di Velika Hoca, a 80 chilometri a sud di Pristina - «questa gente è stata la mia ispirazione per l’ultimo libro intitolato I cuculi di Velika Hoca. È una popolazione che ha subito e sta subendo ogni genere di sopruso e violenza dai nuovi despoti della regione. Se non reagissi a quest’ingiustizia fatta ad un popolo e di cui anch’io mi sento responsabile, non potrei considerarmi uno scrittore. Mi sento in dovere di raccontare… i perdenti, perché solo i perdenti sognano un futuro migliore: i vincitori non sognano più». Una pietas, quella di Handke, che fin dai suoi primi, provocatori scritti come «Insulti al pubblico» o «Sono un abitante della torre d’avorio», ha avuto comunque un’attenzione verso le minime esistenze: verso il mondo degli impacciati, dei miti, degli emarginati vessati da qualsiasi potere, piccolo o grande che sia. «Tutte le forme di potere, anche le più piccole - dice - sono sempre responsabili di azioni violente siano esse anche indirette. Il vizio e la vanità del potere sono implacabili: si insinuano negli uomini e non se ne vanno più. Si diventa facilmente carnefici. Per questo, puntualmente, me ne allontano ogni qualvolta lo sento pericolosamente avvicinarsi. Voglio stare con le persone che scelgo e che mi scelgono gratuitamente, e non perché obbligati da qualche reciproco interesse…”.
È sempre la passione che conduce il poeta per mano e la scrittura infine «spunta dalle dita dopo aver attraversato nel corpo le stazioni della civiltà». I possibili errori diventano un fenomeno per capire e motivo per le sue storie: «Io ho cercato - dice Handke - di raccontare senza la pretesa di essere dalla parte della verità; ho cercato di trovare un equilibrio in quegli avvenimenti tutti sbilanciati da una parte, camminandoci dentro. Ma forse non ci sono riuscito». Perché per Peter Handke il mestiere dello scrittore è «un mestiere bello e pericoloso, dove si deve rischiare senza risparmio se stessi».

Si entra nell’ampio giardino: una macchia verde da una parte, uno sterrato coperto di ghiaia dall’altra. Nel bel mezzo spunta la casa. Cespugli ed alberi ne delimitano i margini. Pochi passi e qualche scalino. Una piccolissima veranda zeppa di scarpe camminate. Poi un grande spazio luminoso che ne è il cuore.
Le tracce della vita del bosco conquistano subito lo sguardo: noccioline raccolte e messe assieme in un minuto nido; ghiande e castagne ancora vestite da punte aguzze; bacche e numerosissimi peduncoli di eucalipto sistemati sopra dei sottobicchieri della birreria U Zlathéo Tygra di Praga; piccole composizioni nate dall’accostamento di radici accanto a cuscinetti di muschio; piume grige e blu di svariati pennuti dislocate in situazioni a grappoli o solitarie un po’ dapertutto. Un tappeto di mele sul pavimento e un’immensità svariata di funghi - quelli detti «orecchie di Giuda» colpiscono particolarmente per la loro forma e la loro consistenza - sistemati in grandi panieri, riporto delle scorribande quotidiane nel bosco vicino. Quando riesce, prima della rapida metamorfosi nauseabonda, li fa seccare. Ne mangia quasi tutti i giorni, dice, con tono di soddisfazione; «funghi, assieme ad altri semplici cibi come verdure, patate lesse, mele, brodo o riso. Molto peperoncino e bacche. Tutto mescolato assieme».
Non è raro incontrare Peter Handke nel centro di Parigi, quasi sempre dalle parti di Montparnasse, con questo suo raccolto boschivo viscido annicchiato alla rinfusa nelle tasche. Con aria d’orgoglio accompagnata da una sua secca postura da montanaro trappista e un sorriso sornione che gli esce quatto quatto dagli occhi, offre volentieri questi suoi affari umidi che estrae dalle tasche agli amici che incontra, raccomandandosi di metterli subito a seccare all’aria. I funghi sono per Handke una specie di madeleine proustiana e sono strettamente legati alla sua esistenza fin dall’infanzia, quando vicino a casa in Carinzia «…andavo a raccoglierli sul monte Saualpe per venderli, e con il ricavato mi sono comperato i miei primi due libri».
Decentrato su un lato, accanto ad una delle numerose finestre vetrate, un grande tavolo di betulla bianca naturale. Delicatissimo allo sguardo sembra una nuvola di cotone. Handke mi invita a sedere al tavolo; ma il pensiero di posare solo l’ombra del gomito mi fa restare con le braccia in aria. Memore di un incontro avvenuto un paio di anni fa tra me, Erri De Luca e Peter Handke, allo stesso tavolo, dove mangiammo saporitissima rucola selvatica e terrosa, non lavata: raccolta da Peter, naturalmente. Facendo chiacchiere e bevendo vino, io e Erri lasciammo impietosamente sotto lo sguardo incredulo del padrone di casa umidissimi centri circolari rossastri che, slittando il centro di pochi millimetri dopo ogni sorsata, si moltiplicavano all’impazzata succhiati dalla superficie assetata. Un vero disastro.
Attorno, libri. Non moltissimi e nemmeno rinchiusi nelle celle di una libreria ma assiepati sul piano del pavimento, negli angoli, su piccoli sgabelli, o accostati alle pareti assieme a un numero imprecisato di rocchetti di filo multicolori. Il tutto fa pensare, con tappe obbligate qui e là, a dei sentieri che invitano ad essere percorsi.
Danno l’impressione, questi libri, tra cui spunta anche un piccolo Corano, di non essere stati messi lì da qualcuno, ma piuttosto che abbiano trovato da soli una loro posizione narrativa, e che si domandino continuamente: perché sono qui? e perché non sono lì? quando comincia il tempo e dove finisce lo spazio? e, come in un gioco, con-fondersi le storie e le pagine.
Nessun segno di macchina da scrivere se non un vecchio e glorioso “rudere” firmato Adler lasciato in un angolo delle scale: né tanto meno l’ombra di un computer. Penne molte, invece, anche stilografiche; svariati scacciapensieri siciliani assieme a qualche occhiale, anche di vecchia fattura; qualche piccolo e curiosissimo oggetto in legno disegnato e colorato di cui bisognerebbe indagare la provenienza. Tutto lasciato qui e là. Ma non senza ragione. Come un quotidiano spagnolo non recente, ma conservato con cura, che racconta la tragedia della popolazione afgana. Oppure, a terra, proprio sul margine del piano rialzato che divide in due lo spazio, il libro III delle Georgiche di Virgilio, aperto - Carpit enim vires paulatim, uritque videndo. Femina, nec nemorum patitur meminisse nec herbæ. - stampato in caratteri gotici e con minuziosi appunti scritti a pennino dallo stesso Handke. Accanto un grande quaderno manoscritto. Peter Handke, questo sperimentatore linguistico che cerca di rifondare il mondo con i mezzi del linguaggio, scrive tutti i suoi testi rigorosamente a penna o a matita. Un processo circolare quasi a promuovere la mano nello sviluppo del cervello: perché anche la sensazione produce pensiero.
Ed è solo grazie ad una “premurosa e angelica” signora che lavora alla casa editrice di Francoforte (Suhrkamp), che riesce a leggere la sua calligrafia, che tutto viene poi messo su dischetto.
Solo così probabilmente quel «rallentare tutto me stesso quando leggo» gli permette anche nella scrittura di seguire il filo del pensiero, scrivendo e scrivendo di getto-lentamente, fino a esaurirsi dalla stanchezza.
È una casa questa fatta di luce, sia per la presenza di numerose porte-finestre che raccolgono la luce naturale, ma anche per la discrezione della luce artificiale al calar della sera, quando più di un abat-jour sparsi per la grande stanza e alcune candele sempre a portata di mano, ricreano una luce densa, materica, che sale dal basso. Sotto l’attento sguardo di un grande angelo dipinto, appeso alla parete.

Un giorno mi è accaduto di attenderlo al cancelletto di casa e lui tornando dal bosco - un pastrano grigio antracite che lo avvolgeva fino alle caviglie e oltre; foglie minuscole scese sulla lana della cuffia in cui aveva completamente infilato la testa e la fronte e da cui uscivano, lunghe e rade ciocche di capelli, segni di matita grassa sulle gote umide - mi salutò con uno sguardo muto. Sembrava uscito dal labirinto di Pan in cui si era perso e alfine ritrovato. Uguale uguale a un fungo che sta crescendo in fretta e spinge dal basso verso la luce. Verso il cielo oltre i rami fitti.
Quando ci diamo appuntamento a Parigi, arrivo sempre prima di lui, cercando la migliore delle postazioni per guardarlo avvicinarsi. Da più lontano possibile. Mi piace osservare quella figura lunga e snella che assomiglia ad un salice in movimento con un andare rallentato, silenzioso. Lasciandosi tempo. Una predisposizione questa, secondo Borges «di chi viene da così lontano che non spera di giungere».
Al tavolo del bistrot, quasi sempre lo stesso bistrot, il ritmo imposto è in-quieto. Scandito da Handke con lunghi silenzi tra una parola e l’altra, tra una domanda rivoltami, ma che è anche domanda a se stesso, e una risposta che rimane il più delle volte inghiottita. Come se le cose, ugualmente, nonostante le nostre speranze, dovessero andare per la loro strada. Funzionare per conto loro.
Alle volte intuisco in lui la stanchezza di ore di scrittura; altre volte l’estraneità procurata dal brivido gioioso della camminata nel bosco. Stanchezza ed estraneità che scivolano facilmente verso i margini della melanconia; una potente, autoironica irosa saturnina melanconia, che investe tutto l’attorno come una «forza da sfruttare nel rapporto con gli altri» e che catalizza la riflessione sul presente nella complessità dell’esperienza e dell’esistenza dell’io. E dalla sconcertante inadeguatezza a viverlo, quel presente. Qualcuno giustamente ha scritto che Handke riesce a trovare nelle storie delle persone, delle cose e dei luoghi « il canto che dorme nei nomi comuni di cosa…».
Dalle persone che ha incontrato nel suo andare ora Handke vuole ripartire e scrivere il grande romanzo della sua vita, dopo «…aver ripreso in mano l’estate passata Stendhal, mi è venuta la voglia di raccontare i tanti personaggi che ho incontrato nella mia vita per cercare una verità… »: forse la verità di una vita attraverso il filo che l’ha legata alle verità di ogni vita.
In Austria torna per ascoltare vecchie storie e trovare il fratello Hans. Fino a qualche anno fa anche per far visita al partigiano Lipej Kolenik (Stanko), austriaco di origini slovene, che conosceva fin dall’infanzia. Ora, per di più, perché sta ultimando la sua prima pièce de théâtre storica: sulla resistenza antinazista degli sloveni di Carinzia a partire dagli anni trenta, storie - dice- che sono tutt’ora sconosciute alla maggior parte della popolazione austriaca. Il titolo sarà «Still storm» ancora tempesta, frase che pronuncia il vecchio nel Re Lear di Shakespeare, e che andrà in scena l’anno prossimo al Burgtheater di Vienna.
Forse per questo, in una delle sue discese verso il Carso e Doberdò del Lago, che è uno dei suoi luoghi della durata, mi ha chiesto di andare a trovare un altro partigiano di cui gli avevo parlato più volte, questa volta friulano: Sergio Cocetta (Cid).
«Per la mia opera ho bisogno delle persone, perché l’uomo deve sentire gli altri intorno a sè, toccarli con le mani…» come mi immagino Omero, che se era veramente cieco mentre parlava ai presenti, li toccava. E quando arrivò il momento del congedo, Peter e Sergio si toccarono con le mani: tutti e due ne offrirono il palmo rivolto verso l’alto per accogliere e sostenere. Cedette, in segno di omaggio, Peter Handke.