Parole

Danilo De Marco - Poesia e R/esistenza dialogo con Pierluigi Cappello (2008)

«Nel maggio del ‘40, da qualche parte in Francia, un tank tedesco passa nella nuvola dei fiori di un ciliegio dopo averne divelto il tronco: è una celebre immagine della Blitzkrieg. In pieno deserto, nel 1990 un gruppo di marines degli Stati Uniti sfarina delle gallette sui palmi umiliati di soldati iracheni. Nel 2003, in un paese dell’alto Friuli, un uomo ha quasi ucciso un altro uomo a colpi di bastone. Davanti al mio giardino c’è una casa ristrutturata; prima era una casa solo di sassi adesso è solo una casa di ricchi.
C’è un filo di volgarità che lega queste immagini, la volgarità è di colui che non sa reggere alla propria vittoria. Essere volgari è seducente. Per conto mio, mi ingegno di resistere, per lo più leggo e qualche volta scrivo. Scrivere versi è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso, non un milligrammo in meno».
Al contrario di quello che possono far pensare queste righe, Cappello è uno di quegli uomini che hanno la dote di trasmettere energia positiva, nonostante il ‘disincanto’ e la realtà che lo circonda. Parlando di un partigiano, in un suo recente scritto pubblicato sul catalogo della mostra R-Esistenze dal titolo ‘Mare bianco’ gli fa dire : «Ho condotto fuori da me la mia paura, l’ho versata sulla testa dei miei nemici»
Poeta civile, Cappello è un essere tenero, dolce e vivace, squisitamente orale: per lui perdere la sensibilità e la potenza che ha la parola vuol dire regredire ad uno stadio primario. A Cappello piace definire «polmone verde della nostra coscienza civile» tutta quella attività linguistica che si è formata da una lunga tradizione filosofica, letteraria… «quell’attività umanistica dell’uomo che viene messa in relazione in maniera del tutto personale dentro di noi. Quello che spunta è solo l’aicberg di un grande lavoro collettivo. Giorgio Caproni, a cui sono particolarmente legato, diceva che gratta gratta in fondo al pentolone dell’io si trova il noi. Mi piace richiamarmi a questo polmone verde della coscienza perchè ha dentro di sè l’immagine della foresta e, la poesia, entra in questa foresta. Tu entri nella temuta foresta, ma da essa hai la possibilità di portare alla luce, dilatare la parola, perchè abbia di nuovo senso, come soffiare nuova vita dentro parole che sono vecchie o consumate…con l’esattezza del poeta e l’ambiguità che trascina con se…ma è un lungo discorso. Si lavora sull’alone semantico. All’incontrario invece, quando le coscienze diventano simili, meglio si può proporre loro una alimentazione attraverso gli slogan pubblicitari uguali per tutti. E’ così che la parola viene depotenziata, corrosa, immediatamente consumabile e si adegua alla nostra perdita percettiva. Il polmone verde è il nostro ‘fare’ ecologico, la nostra coscienza, la nostra grande riserva, il parlato interiore specifico di ogni individuo, la resistenza alla minaccia…» E la sua è una resistenza inscritta nel fatto stesso di esistere. Per questo quando si è in sua compagnia è il tempo stesso che rallenta la sua velocità, che ci-riprende. Un’oasi di vuoto e di silenzio si condensano tutt’attorno e un ritmo più vicino al nostro fluire interiore si-ci raddensa e riempie quel vuoto. Il silenzio come espressione, spazio, luogo della parola: «la parola che sale alla bocca» e «la nuova che dal buio trabocca». Ogni verso è strappato al silenzio e nello stesso tempo genera silenzio. Una dimensione che il nostro tempo assordante sembra aver perduto.
«La parola ama il silenzio e un poeta tende al silenzio, alla qualità del silenzio, per dilatarne le sue significanze. Le forme del silenzio sono tantissime e variegate: c’è il silenzio della cenere, quello delle pietre, il silenzio della pacificazione interiore che è la forma più alta che può assumere una parola. C’è il silenzio della morte della coscienza, e quello indotto da un dolore così grande in cui tutto, compreso l’urlo, si fa muto. Per esempio in poesia quando in una pagina intera si occupa solo una porzione limitata di spazio, lo spazio attorno non è casuale. Rappresenta il silenzio. Quando si va accapo, quando si spezza il verso a metà, quando lo si dispone dissossato…quelle sono parti di silenzio. E’ in questa complessione che vive il verso, tra suono e silenzio, che si danno alternativamente. E’ un viaggio di spola, un continuo ritornare sulle cose ma al di là di questo esiste una grammatica seconda, che è la musica interna delle parole. Le parole sono materia. Troppe volte si pensa che per scrivere versi basta essere padroni di una certa grammatica, c’è l’idea che andando a capo (quasi tutti)si possono scrivere dei versi. Così si fa come quando si era bambini: le file dei soldatini allineati».
Il poeta non inventa crea, precisa Cappello. «Per questo di poeti ne nascono forse cinque in un secolo. Ricordo il grido disperato di Moravia alla notizia della morte di Pasolini. Era quasi un pianto. La vibrazione delle sue corde vocali quando gridò ‘è morto un poeta’ sembravano scorrere…legnose, senza possibilità di sollievo, lamento senza possibilità di pacificazione ».
E come Pasolini, Cappello, scrive molto anche in friulano, lingua debole che per lui però è primaria nel senso che «non avendo la possibilità numerica di tutti i vocaboli della lingua italiana diventa lingua attaccata alle cose, tanto che si salda addosso alle cose». Salustri è una parola che ama particolarmente: «…come si fa a tradurre in italiano una parola come salustri…mi spiega Pierluigi. Salustri è una pausa celeste fatta di lucentezza, è uno squarcio d’azzurro… c’è stata grandine prima e ci sarà grandine dopo, è quel tra, è quello squarcio di azzurro tra due temporali, o anche nel mezzo di un temporale che salustri riempie e scatena tutta la sua potenza. Allo stesso tempo, in friulano, salustri è quello sprazzo di lucidità che un uomo ha un attimo prima di morire. Tradurre salustri in italiano sarebbe come ripulirla dal tempo accumulato, come estirpare una radice e non voler accettare tutte le forme residuali che porta con se, spogliarla dal suo giacimento. Salustri è l’esempio di questa linea senza soluzione di continuità tra la biologia e la metereologia. L’italiano non ha questa possibilità espressiva».
Per Cappello quella del poeta è quasi una condizione di primitiva innocenza, di ingenuità intuitiva di fronte alla nascita… delle parole. Le parole si adoperano per avvicinarsi alle cose, un po’ come avrebbero fatto le realtà artigianali alle prese con il loro mestiere. E’ in quel fare della poièsi, in quell’indagine critico-creativa che vi si ritrova anche il paradosso che per Cappello vive la parola.
«Le parole le adoperi per avvicinarti alle cose ma nel momento stesso in cui le adoperi, appunto perchè parole, diventano segni delle cose stesse che tendono ad allontanarti da esse. E il senso non è nell’inizio né nella fine, ma nella tensione…ecco, se esiste una verità credo stia proprio lì, nella tensione tra…la poesia mi piace quando si salva la componente del nostro muoverci assieme alle cose, averne lo stesso ritmo, il medesimo passo, il medesimo polso. E’il tentativo di dare con le parole un’immagine misteriosa e prossima. Inapellabile per chi la usa. Un tentativo per chi la legge».
Cappello ricorda come una rivelazione l’incontro con una giovane professoressa che veniva da Roma nel piccolo paese di Chiusaforte dove frequentava le medie: «Ci leggeva la Chanson de Roland, Omero, Ariosto… con il fascino di una formula magica. Prova ad immaginare di stare dentro alla testa di un bambino che viveva in un piccolo paese di montagna e che voleva…volare. E’ stata una epifania».
Da allora l’Epica lo ha sempre attratto: «Epos è la risoluzione, la condensazione in un singolo gesto di una intera sorte umana. Ettore e Achille raddensano in se una intera civiltà e risolvono il loro stare con il mondo in un solo gesto. Ettore che secondo me è tre volte uomo, perchè per tre volte fugge davanti ad Achille …ma è la sua debolezza che gli fa vincere la paura e affrontare un avversario palesemente più forte di lui. La sua debolezza è la sua umanità…E l’altro episodio, quello di Andromaca, dove si sfila l’elmo simbolicamente per allontanare la pressione della guerra che preme sulle porte di Troia…Lo sfilarsi l’elmo è un gesto di pace. Ettore fa dono della propria debolezza. Ho sempre privilegiato la figura di Ettore».
Per Cappello la poesia contiene in sè la gratuità: non è mossa da interessi economici. Per questo ha in sé anche una «sua forma di sensualità». Per questo la poesia, la lirica, l’epos sono pericolosi per il potere. Comprendere questo, nel senso di portare con sé, diventa atto rivoluzionario che accomuna tutta l’umanità. «Si è la coda dell’esercito in fuga / o la fronte dell’altro che incalza / qui resistere significa esistere / la speranza è il colore dei morti / nelle tuniche stracciate dal vento».
«Una volta che il testo esce, quel testo non è più mio. Un uomo che scrive versi è nel contempo schiacciato da una direzione diacronica, passato-futuro e da quella sincronica che è il presente. Il luogo del poeta è quello di starne al centro, subendo pressioni enormi. In qualche modo devi essere tu e non esserlo…e questo ti da la forza di non porti il problema del per chi scriverò… vista anche la sconfortante assenza di lettori. E’ in virtù di questo stato di compressione che si scrive, per questo cerco di scrivere sempre gratuitamente. Per questo la poesia si può imparare a memoria E’ così che diventa di tutti. E’ una forma di resistenza perchè ti insegna a sentire le cose senza appropriartene: illumina le cose da dentro e le libera. E’ fuori mercato. Per questo disturba il potere».