Parole

Pierluigi Cappello - Trimant il vivi/Tremando il vivere

Danilo De Marco Poeta civile, Pierluigi Cappello è un essere tenero, dolce e vivace, squisitamente verbale: perdere la sensibilità e la potenza che ha la parola, per lui vuol dire regredire ad uno stadio primario.
Ogni volta che lo si va a trovare nella sua casa di Tricesimo, dove le colline moreniche iniziano la loro definitiva discesa verso la pianura friulana, in uno degli ultimi residui/prefabbricato/memoria del terremoto del 1976 in legno d’abete consunto con grosse macchie di umidità agli angoli del soffitto, le parole diventano il centro di gravità provviste di ciglia vibratili nel loro protendersi al tutto.
Attorno ad esse prende senso lo stare assieme.
Più che una casa, tutto ricorda la cella di un monaco con la vocazione alla lettura: non troppo in ordine, sparsi anche a terra romanzi, saggi, libri di poesia. Un’aria greve da fumo impregna lo spazio, avanzo delle troppe sigarette che PierPoeta, come a me piace chiamarlo, consuma durante le sue lunghe giornate.
In questa manciata di metri quadri, ultimo simulacro di morte e vita di un tempo tragico, vive nella ritualità di un’esistenza essenziale come le sue parole. Quasi un sussurro.
La condizione del poeta, per Cappello, è quella di una primitiva innocenza, di ingenuità intuitiva di fronte alla nascita delle parole. Le parole si adoperano allora per “avvicinarsi alle cose”, un po’ come avrebbero fatto le realtà artigianali alle prese con il loro mestiere.
La paziente attesa - la solitudine di Cappello non è mai rancorosa - diventa l’arnese critico/creativo di questo ‘artigiano’ della parola: “la parola che sale alla bocca” e “la nuova che dal buio trabocca” perché è solo così che le parole possono disporsi in “relazioni più intime, che fruttificano in forme di intuizione” e fanno di ogni incontro un unico e irripetibile momento.

Pierluigi  Cappello Le parole le adoperi per avvicinarti alle cose ma nel momento stesso in cui le adoperi, appunto perché parole, diventano segni delle cose stesse che tendono ad allontanarti da esse: “i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte…Tengo per me cos’è curare il fuoco / l’odore spesso di legna bruciata, lo stoppino fra le dita / lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare…”
E il senso non è nell’inizio né nella fine, ma nella tensione: ecco, se esiste una verità credo stia proprio lì, nella tensione tra…la poesia raggiunge la sua incandescenza quando trattiene la componente del nostro muoverci assieme alle cose, averne lo stesso ritmo, il medesimo passo, il medesimo polso.
La parola ama anche il silenzio e un poeta tende al silenzio; o meglio alla qualità del silenzio, per dilatarne le sue significanze. E le forme del silenzio sono tantissime e variegate: c’è il silenzio della cenere, quello delle pietre, il silenzio della pacificazione interiore che è la forma più alta che può assumere una parola.
C’è il silenzio della morte della coscienza, e quello indotto da un dolore così grande in cui tutto, compreso l’urlo, si fa muto. Per esempio in poesia quando in una pagina intera si occupa solo una porzione limitata di spazio, lo spazio attorno non è casuale. Rappresenta il silenzio. Quando si va a capo, quando si spezza il verso a metà, quando lo si dispone disossato…quelle sono parti di silenzio. È in questa complessione che vive il verso; tra suono e silenzio che si danno alternativamente. È un viaggio di spola, un continuo ritornare sulle cose: ma al di là di questo esiste una grammatica seconda, che è la musica interna delle parole. È il tentativo di dare con le parole un’immagine misteriosa e prossima. Inappellabile per chi la usa. Un tentativo per chi la legge. Le parole sono materia.
Troppe volte si pensa che per scrivere versi basti essere padroni di una certa grammatica; c’è l’idea che andando a capo si possono scrivere dei versi. Così si fa come quando si era bambini: le file dei soldatini allineati.
Proprio per questo di poeti ne nascono forse cinque in un secolo. Ricordo il grido disperato di Moravia alla notizia della morte di Pasolini. Era quasi un pianto. Le vibrazioni delle sue corde vocali quando gridò “è morto un poeta” sembravano scorrere…legnose, senza possibilità di sollievo, lamento senza possibilità di redenzione.

Ti piace definire “polmone verde della nostra coscienza civile” tutta quella attività linguistica che si è formata da una lunga tradizione umana, filosofica e letteraria. Una memoria collettiva dunque, dove ci si salva o ci si perde tutti assieme.

Giorgio Caproni, a cui sono particolarmente legato, diceva che gratta gratta in fondo al pentolone dell’io si trova il noi. Mi piace richiamarmi a questo polmone verde della coscienza perché ha dentro di sé l’immagine della foresta e la poesia entra in questa foresta. Tu entri nella temuta foresta, ma da essa hai la possibilità di portare alla luce, dilatare la parola, perché abbia di nuovo senso, come soffiare nuova vita dentro parole che sono vecchie o consumate…con l’esattezza del poeta e l’ambiguità che trascina con sé… Si lavora sull’alone semantico.

Invece nel nostro modo abituale di pensare e di vivere il quotidiano, questo alone semantico del discorso poetico è, il più delle volte, difficile, ostico, inquietante; crea disorientamento nel ‘tempo reale’ in cui siamo accerchiati. Tempo reale invaso dai detriti del linguaggio poetico riversati a valanga nel dire pubblicitario, che si insinua e alla fine impone facili e semplicistiche conferme, senza sollecitare alcuna riflessione…

Certamente quando le coscienze diventano simili, meglio si può proporre loro una alimentazione attraverso slogan pubblicitari uguali per tutti. È così che la parola viene depotenziata, corrosa, immediatamente consumabile e si adegua alla nostra perdita percettiva.
Noi ‘parliamo’ sempre, sia quando lo facciamo in forma di dialogo sia quando il colloquio avviene entro noi stessi, dentro un silenzio che è soltanto nostro. È dentro quel silenzio che le parole si dispongono alle relazioni più intime, che fruttificano in forma di intuizione, una volta ho definito quell’ininterrotto parlarsi dentro il polmone verde delle nostre coscienze, la nostra ricchezza più segreta, la possibilità di immaginare mondi in assoluta libertà.
Bene. A me sembra che quella foresta sia sotto assedio, minacciata dal trionfo della civiltà mediatica; se si sradica quel silenzio vivo dall’essere umano si sradica, a mio parere, anche la possibilità dell’uomo di essere uomo. Stiamo seppellendo quel silenzio sotto una colata di clamore, nutriamo una malsana paura di quel silenzio, che confondiamo con il vuoto, e viviamo per rimozioni: rimozione del dolore, rimozione della morte, rimozione di ogni forma di debolezza che turbi e induca a pensare; e inneschi quel parlato interiore capace di restituirci libertà, di ricondurre il nostro sguardo alla salutare imperfezione della nostra natura.

Nella tua nuova raccolta di versi dal titolo ‘Mandate a dire all’Imperatore’, una quarantina di liriche raggruppate in tre sezioni assieme ad un breve poemetto, edito da Crocetti, che ti ha portato ad essere tra i tre finalisti del Premio Viareggio Poesia 2010, insisti sulla parola e sull’oggi “Così come oggi tanti anni fa / mandate a dire all’imperatore / che tutti i pozzi si sono seccati / e brilla il sasso lasciato dall’acqua / orientate le vostre prore dentro l’arsura / perché qui c’è da camminare nel buio della parola”.
Una paura questa, un timore esistenziale per quello che ti circonda - ci circonda -, e che tu stesso in qualche modo sei alla ricerca di esorcizzare anche per noi, con una energia poetica gettata fuori da te: “Ho condotto fuori da me la mia paura, l’ho versata sulla testa dei miei nemici”.
O l’altra paura, questa ben più concreta: il ricordo indelebile di quel terribile incidente di gioventù, quando la moto su cui viaggiavi, guidata da un compagno più anziano, si è schiantata contro la parete di roccia della montagna.

A 16 anni ero un buon centometrista, mi seguiva Ovidio Bernes, una leggenda dello sport udinese. Era stato campione italiano di salto in alto negli anni Cinquanta e noi ragazzini lo chiamavamo suste (molla, in friulano) per via della straordinaria elevazione di cui era capace anche in età ormai avanzata. Si presentava al campo con un paio di pantaloni di velluto a coste e delle logore polo, qualche volta con delle camicie a scacchi, tutto il contrario degli allenatori cui siamo abituati adesso, al collo aveva un fischietto e un antiquato cronometro a mano. Quell’uomo mi ha insegnato il rispetto dell’avversario, che gli unici con cui dobbiamo fare i conti siamo noi stessi, che colui che corre spalla a spalla con te non è un nemico, ma il te stesso che devi superare anche quando ne vedi la schiena perché la gara per te è finita male. Per lui il totem del “risultato” non aveva alcun valore e forse proprio in virtù di questi presupposti è riuscito a formare degli ottimi atleti, che hanno avuto una ribalta anche internazionale. Con lui l’atletica la si amava e si imparava a mettere in sintonia il proprio corpo con lo spazio che stava intorno ad esso. Non si temeva la sconfitta, la sconfitta era un’occasione per imparare, meno che mai eravamo tormentati dall’ansia del risultato.
Mi dici dell’incidente: non amo parlarne, ma qualcosa la dirò. L’inizio è stato tragico: le gambe non si muovono più, impari a stare seduto e in equilibrio solo con la forza dei muscoli dorsali che ti sono rimasti perché non rispondono più nemmeno gli addominali; ho affrontato un anno e mezzo di ospedale prima di tornare a casa; mi avevano raccolto dall’asfalto con il cucchiaino, mi rifiutavo di fare fisioterapia perché non concepivo, io che in pista lottavo per limare un decimo di secondo, come dovessi compiere sforzi sovrumani per fare male gesti che chiunque faceva con fluidità ed eleganza senza nessuna fatica. Poi, piano piano, mi sono riconciliato con la mia carne, o la mia carne si è riconciliata con me: a tutt’oggi ancora non lo so.
Molti, specialmente all’inizio, hanno associato quel fatto tragico della mia vita alla mia poesia, qualcuno si è spinto a dire che anzi, è in forza di quel fatto che io ho scritto. La verità, purtroppo, è diversa: io ho scritto malgrado quell’incidente. Essere divelti dalla sensualità del proprio corpo, vuol dire dilapidare patrimoni di sensibilità. Non è uno svantaggio da poco per chi intende lavorare (anche, ovviamente, non solo) con i propri sensi, tutti, nessuno escluso. Tuttavia, un evento del genere è capace di incidere sulla scrittura: amavo viaggiare, forse per liberarmi dell’ombra delle montagne, quelle stesse montagne che sono state il propulsore della mia immaginazione perché nascondevano il cielo, mi sarebbe piaciuto entrare nel corpo vivo delle città e dei luoghi, per rubarne il cuore segreto, un po’ come fa Eraldo Affinati; invece mi è toccata in sorte una stanzialità obbligata, un organismo cocciuto nel negare i desideri e le curiosità, così ho imparato a fare mio il poco che conosco, a scandire fotogramma per fotogramma ogni più minuto gesto quotidiano, ogni singolo taglio di luce nel mio giardino, e ho scoperto, no, meglio: ho “sentito” che il mondo è ovunque il mondo si riveli e non è indispensabile attraversare oceani per farsene abbracciare. In questo mi ha aiutato anche la lettura di Joë Bousquet. “L’uomo più veloce è l’uomo immobile”, ha scritto, bisogna viverla nella carne una frase simile per comprenderla fino in fondo.

A Chiusaforte, un puntolino infilato nel Canal del Ferro all’estremo nord-est del Friuli sono andato con Pierluigi alla guida della sua piccola vettura. Qui ha vissuto quasi tutta l’infanzia e la giovinezza.
Il paese, poco più di 700 abitanti, è tutto raggomitolato sul fianco della montagna, da dove si fa fatica a raccogliere con lo sguardo squarci di cielo.
Negli anni Cinquanta parte di questa gente si incolonnava tutte le mattine per andare a lavorare nella miniera di zinco e piombo di Cave del Predil, più a nord, al confine con l’Austria.
Chi non riusciva ad infilarsi nel terribile Pozzo Clara della Miniera di Raibl, era costretto all’emigrazione. Come Antonio, tuo padre che ricordi in alcuni versi così “…un uomo di mezza età / raccolto, gli zigomi alti, la bocca larga / pronta alla vita, il collo di un cavallo da tiro” e che per anni se n’è andato a lavorare in Svizzera.

All’arrivo è subito festa: ci aspetta Latino che conosce bene Pierluigi da quando era bambino e gli fa volentieri da spalla. Al Bar del paese subito alcune persone si fanno incontro a salutare “il nostro grande poeta”. Un’anziana donna lo saluta con un “mandi frut” dalla finestra del primo piano. Una bambina, Sara, che ha sentito parlare di lui e visto il suo volto in televisione e sui giornali, non si intimidisce e gli si siede accanto.

Vivere a Chiusaforte prima del terremoto del 1976 significava essere immersi in una civiltà pre-industriale. Per lungo tempo il Friuli è stato una delle aree depresse del nostro Paese, moltissimi friulani hanno ingrossato le file dell’emigrazione, l’ultimo esodo avvenne durante i primi anni Cinquanta; le mete erano, quando andava bene, il Belgio, la Svizzera, la Francia, la Germania; altrimenti l’Australia e l’Argentina, e in questi ultimi casi l’addio era per sempre.
Chi rimaneva, rimaneva in gesti congelati da secoli: raccogliere e cernere la legna, cercare di cavare qualcosa da orti aggrappati ai pendii, litigare per pochi centimetri di terra buona strappati ai vicini, perché in montagna la terra buona è scarsa e ci vuole una pazienza infinita per far crescere i frutti della terra in quei posti, pazienza e cura: gli uomini di quelle comunità erano uomini aspri che sapevano di vino e sudore, continuamente sospesi tra meschinità e slanci sublimi; la morte, il dolore, la debolezza, non erano rimossi, ma compresi nella vita stessa e la presa sulla natura era salda, si nasceva e si moriva in modo diverso, fra le quattro pareti domestiche. Io stesso ho partecipato da piccolo a interminabili veglie funebri, costretto da mia nonna; i morti li si vedeva - e li si toccava - già da bambini e vivi e morti insieme erano stretti in un anello che faceva la comunità. Poi, con il terremoto, quell’anello si è spezzato, siamo stati scaraventati sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo e se il sisma ha significato la distruzione e il lutto è anche stato la porta per la quale hanno fatto irruzione il benessere, la comodità dei bagni in casa, la possibilità di scolarizzazione, e, con le nuove opportunità di lavoro, un nuovo esodo, questa volta dalle montagne alla pianura. Per quanto dura, misera, la vita che innervava la cultura contadina e artigianale era pur sempre un modo di stare nel mondo che, dopo millenni, è franato in poche decine di anni e questo fatto ha avuto contraccolpi anche di carattere antropologico.
La Miniera, come la chiamavano a Chiusaforte, nelle parole di mio padre aveva raggiunto una consistenza leggendaria era l’extrema ratio. Qualcosa che era un bene che ci fosse (per via delle prospettive di lavoro che rappresentava), ma da evitare in ogni modo possibile per la durezza delle condizioni. Mio padre non ci lavorò mai, anche se, proprio per evitarla, affrontò condizioni di lavoro secondo me ancora peggiori. In ogni caso era una presenza incombente. Forse per questo è rimasta ben viva nel mio immaginario.

Di Chiusaforte hai un ricordo particolare, se non mi sbaglio: un evento che fu per te come una rivelazione, quella giovane professoressa delle medie, Mariarosa Famiglietti, che arrivava da Roma…

Ci leggeva la Chanson de Roland, Omero, Ario­sto… con il fascino di una formula magica. Prova ad entrare e immaginare di stare dentro la testa di un bambino che viveva in un piccolo paese di montagna e che voleva volare. È stata una epifania.
Da allora l’Epica mi ha sempre attratto.
Epos è la risoluzione, la condensazione in un singolo gesto di una intera sorte umana. Ettore e Achille raddensano in sé una intera civiltà e risolvono il loro stare con il mondo in un solo gesto. Ettore che secondo me è tre volte uomo, perché per tre volte fugge davanti ad Achille…ma è la sua debolezza che gli fa vincere la paura e affrontare un avversario palesemente più forte di lui.
La sua debolezza è la sua umanità.
E l’altro episodio, quello di Andromaca, dove si sfila l’elmo simbolicamente per allontanare la pressione della guerra che preme sulle porte di Troia…
Lo sfilarsi l’elmo è un gesto di pace. Ettore fa dono della propria debolezza. Ho sempre privilegiato la figura di Ettore.

Radici insomma, anche se oggi sembra che le ali siano più di moda: viaggi acceleratissimi ci portano lontano, e ci disperdono nella mondializzazione. Ma il suono anche di una sola parola tende a ricondurci nel paese del riconoscimento, nell’Heimat, la piccola Patria. E forse non è un caso che dagli anni Settanta in poi abbiano ripreso fiato i dialetti in letteratura: soprattutto in poesia hanno ripreso una funzione rilevante.
E tu come Pasolini scrivi anche in friulano.
Ecco che qui si innesta quello che una parte dei politici italiani specialmente nel nord chiamano “la tradizione”; il più delle volte con riferimenti di continuità con un passato storico - i Celti per esempio - a volte opportunamente selezionato. E la lingua, il dialetto, diventa madre di questa tradizione.
Eric J. Hobsbawm afferma che le “tradizioni” che decidiamo essere nostre e antiche hanno spesso un’origine recente o addirittura talvolta sono inventate di sana pianta.

Chi scrive sa bene quanto conti trovare parole pertinenti a ciò che si vuole dire, parole che aderiscano al pensiero espresso in maniera del tutto naturale, come fa la corteccia con il tronco. Io sono nato in Friuli e ci vivo, e parlo ogni giorno in friulano e in italiano, in una condizione di bilinguismo perfetto. Ci sono interi mondi che si possono esprimere soltanto in friulano e mondi altrettanto vasti che richiedono l’uso dell’italiano.
Il friulano, ma ciò vale per qualsiasi lingua, non ha a portata di mano per l’uso immediato tutti i vocaboli per dire la modernità: è, invece, efficace nel descrivere i fenomeni naturali.
Salustri, per esempio, significa quell’istante di lucentezza, quel respiro di azzurro che si apre tra due temporali ma anche quello sprazzo di lucidità che ha un uomo prima di morire. Tradurre la parola salustri in italiano sarebbe come ripulirla dal tempo accumulato, come estirpare una radice e non voler accettare tutte le forme residuali che porta con sé, spogliarla dal suo giacimento. Salustri è l’esempio di questa linea senza soluzione di continuità tra la biologia e la meteorologia.
Lavoro da sempre sulla parola e ho capito che le parole hanno un’intelligenza propria, le parole ci “parlano” e tante volte non ne siamo che gli agenti. Conoscere più lingue, averle radicate in noi, è una straordinaria opportunità di pronunciare in maniera il più possibile completa il proprio io, è per questo che uso entrambe le mie lingue nel fare poesia.
Inoltre, le parole affondano le proprie radici nel tempo.
Quando sono scritte costituiscono una tradizione, ed è perfino una banalità dire che la tradizione, per essere tale, presuppone un amoroso tradimento.
La tradizione è qualcosa di dinamico che si muove con il tempo e lo contiene, e si arricchisce via via con ciò che ne sta fuori, non è un’imperturbabile linea retta sbucata dalla notte della storia e diretta intatta come una lancia dentro il futuro.
La tradizione non si chiude, non esclude, ma apre, e quando sento proporre alla lunga certe idee di “tradizione” da cartolina turistica, non posso essere d’accordo. Non è che i friulani siano più friulani se parlano solo il friulano.
E poi, le parole asservite all’ideologia o, peggio, a tattiche di breve respiro, mi fanno paura. Se questo Paese ha una possibilità, tale possibilità risiede in come riuscirà a integrare, comprendere, le etnie e i popoli di cui è composto, non certo irrigidendosi nella paura dell’altro.

Certo a ben osservare questo fenomeno ideologico di “tattiche di breve respiro” da cartolina leghista - senza dimenticare quanto ha attinto dai delusi della sinistra saccheggiando nel suo patrimonio, e spingendo sul sogno dell’arricchimento individuale - di contraddizioni da quattro soldi ne possiamo trovare quante ne vogliamo.
Prendiamone una simbolicamente importante come esempio: il crocefisso e le “radici cristiane”.
La Lega impugna la spada delle Crociate, ma poi si dà a riti che sembrano più pagani che cristiani, come quelli che esaltano il dio Po o i matrimoni celtici con inni a Odino.
Oppure, a caso, Mister B. e il berlusconismo di conseguenza: il piduista pontifica sulle “radici cattoliche” facendo del suo comportamento scempio e della parola bordello: costruendo un linguaggio furfantesco che serve a programmare neurolinguisticamente l’audience. Un istinto padronale il suo, che non misura la partita in termini politici ma di comando, dove anche le informazioni veritiere vengono distribuite per sovrana concessione.
Negli anni ‘80 in “Lessico famigliare” Natalia Ginzburg, atea ed ebrea, scrisse: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza - uguaglianza! - fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? - o musulmani - Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli”.
È un’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia…

Alcuni giorni fa, in compagnia di un amico, ho fatto una passeggiata a Tricesimo; faceva molto caldo, così, una volta raggiunta la piazza, abbiamo deciso, il mio amico e io, di fermarci in un bar per gustare un gelato. Il centro di Tricesimo non è brutto, è un borgo che tradisce le sue origini contadine, e conserva in qualche modo una specie di austera nobiltà che non disturba. È piacevole, d’estate, fermarsi a un tavolino, magari leggere le notizie del giorno e poi divagare, facendosi accarezzare dai minuti che passano, una volta tanto senza una direzione ben precisa. Dopo un po’ che eravamo lì, ci avvicina un africano, appesantito da una grossa borsa da viaggio e, come succede di norma, ci propone le sue chincaglierie; facciamo un po’ di resistenza, alla fine concordiamo per l’acquisto di una manciata di accendini, cinque, per essere precisi, pagati cinque euro.
Si vede che sono le prime cose che vende in giornata (e sono già le undici) perché gli allungo una banconota da dieci e lui è costretto a entrare in bar per farsela cambiare e darmi il resto. Lo ritrovo con lo sguardo qualche minuto dopo, a pochi passi da me: è davanti a due anziane signore, i tre sono specchiati dalla vetrina di un elegante negozio di scarpe e da dove sono io si percepisce uno scambio di battute; poi le due donne si scompongono in un’esplosione di insulti, rapida, violenta, quel che si dice una piazzata. L’africano se ne va, un’ombra, meno di un’ombra inseguita da un “torna da dove sei venuto” carico di odio. La scena è avvenuta in pieno giorno, in una piazza animata di un piccolo centro di provincia e chi ha aggredito sono state due signore avanti negli anni, perfettamente normali secondo i canoni della nostra società.
Di tutti i presenti, me compreso, nessuno è intervenuto, nessuno ha richiamato le due donne, la violenza verbale appena esplosa è stata digerita dalla piazza come un evento ordinario.
Tornato a casa, mi sono interrogato in primo luogo sul perché non sono intervenuto e le ragioni che mi sono dato non sono confortanti. Semplicemente, non volevo turbare con un alterco l’appuntamento con il mio amico, laboriosamente concordato da una settimana. Tutto qui.
È la banalità di questa ragione e di milioni di ragioni simili a queste che dovrebbero metterci dentro una certa inquietudine. L’odio ha gioco facile nel farsi strada quando la resistenza delle nostre coscienze cede davanti a motivi così ordinarî. Il male si nutre di banalità e al tempo stesso le produce, come sappiamo.
Un’altra questione che mi è affiorata quel giorno è questa: l’aggressività così esposta delle due anziane signore si può ricondurre a un aspetto ancestrale dell’essere umano e cioè la difesa istintiva, darwiniana del proprio territorio? Insomma, in altro contesto sociale, le due signore si sarebbero comportate nella stessa maniera? Sì e no, mi sono detto. In una società diversa, dove (immaginiamolo per assurdo) i modelli culturali dominanti tenessero conto delle diversità, proponessero il concetto di diversità come un valore, probabilmente la reazione violenta delle due sarebbe stata più sorda, più contenuta, perché è nota la funzione inibitoria che può avere un’idea largamente condivisa. Ecco, in tutti questi anni la Lega mi pare abbia, quando non alimentato, almeno liberato una rabbia istintiva di rancorosa autodifesa dall’altro. La sua messa in scena giorno per giorno (i fucili di Bossi, ricordi?) magari in forma di boutade, l’ha resa possibile e si è insinuata, insediata e giustificata nelle pieghe della società.
La nota polemica intorno al crocifisso si colloca in questo quadro di lacerazione sociale. È facile rilevare una contraddizione palese tra matrimoni celtici, invocazioni a un improbabile dio Po e, nel contempo, difesa integrale, o meglio integralista, del simbolo più alto del cristianesimo. Tale contraddizione, sul piano dei concetti è ricomposta, a livello meramente strumentale, dall’esigenza della Lega, ma non solo, di utilizzare i simboli quali marcatori di separatezza, che sia il dio Po o la figura di Cristo in questa ottica importa poco. L’importante è la conquista, mi auguro momentanea, di spazi di consenso e, quindi, e comunque, di potere. Ma se tu metti sullo stesso piano il dio Po e il simbolo universale della gratuità e li accomuni in una funzione di contrasto a ogni diversità, avviene un fenomeno inquietante: la reificazione del simbolo: il crocifisso da simbolo universale (che è di tutti) si riduce a insegna (che è soltanto di una parte). E ciò diventa possibile quando si pensi che viviamo in una società che è preda di una smemoratezza apparentemente immedicabile, innescata dal sistema mediatico.
Paul Ricoeur in occasione della guerra in Jugoslavia scrisse queste parole:
“L’Europa è sospesa tra un eccesso di memoria e un eccesso di oblio”: dove l’eccesso di memoria era da imputarsi ai responsabili del conflitto nei Balcani, che avevano rispolverato contese territoriali vecchie di secoli per fomentare l’odio, mentre l’eccesso di oblio era da ascriversi alla parte opulenta dell’Europa, che in quella circostanza dimenticò ciò che era accaduto soltanto mezzo secolo prima. Penso che un ritratto più lucido del vecchio continente non si potesse dare. E che mostri tutta la sua sconcertante attualità anche oggi. Ha ragione Predrag Matvejevic´, quando dice che bisogna “difendere” la memoria ma anche “difendersi” dalla memoria.

“La poésie ne se vend pas, donc la poésie n’a plus d’importance. La poésie n’a plus d’importance, donc ne se vend pas” ha scritto recentemente, tra le altre cose, Jacques Roubaud su “Le Monde Diplomatique”.
La poesia, mi è sempre parso di capire dalle tue parole, contiene in sé gratuità: parola questa scandalosa in tempi dominati dagli interessi di mercato, dove tutto è in vendita compresa un’umanità messa all’asta e dove persone dotate di lealtà e di azione ‘politica’ sembrano scomparire per lasciare spazio ad aggressività e cinismo aziendale che trasformano gli esseri umani in un getto di psicopatici.
Una condizione che Luigi Zoja - psicanalista - chiama “psicopatia di successo” o “perversione morale permanente”, aggiungendo anche che è una condizione “difficile da redimere”.
La poesia, la lirica, l’epos percorrono altri sentieri e portano con sé, come tu dici, la gratuità che secondo te contiene anche una sua “forma di sensualità”. Da non confondere, immagino, con la nudità di freschi pezzi anatomici accatastati e messi in bella mostra un po’ dovunque in questa nostra vetrina MediaSetItalia, con vuote forme spettacolari che allontanano sempre di più la possibilità del formarsi di una coscienza critica e riflessiva.
“Un dono anche piccolo è caro , diceva Nausicaa, antenata di Maria Maddalena per sensibilità e dolcezza”. Il dono, la gratuità avvicinano: diventano scambio. Vuol dire dare ma anche ricevere. Segnano un equilibrio nel rapporto di prossimità. La gratuità redistribuisce.
Comprendere questo, nel senso di portare con sé, mi pare diventi oggi un fatto rivoluzionario che cerca di accomunare tutta l’umanità. “Si è la coda dell’esercito in fuga / o la fronte dell’altro che incalza / qui resistere significa esistere / la speranza è il colore dei morti / nelle tuniche stracciate dal vento”.

Una volta che il testo esce, quel testo non è più mio. Un uomo che scrive versi è nel contempo schiacciato da una direzione diacronica, passato-futuro e da quella sincronica che è il presente. Il luogo del poeta è quello di starne al centro, subendo pressioni enormi. In qualche modo devi essere tu e non esserlo… e questo ti dà la forza di non porti il problema del per chi scrivere, considerata anche la sconfortante assenza di lettori. È in virtù di questo stato di compressione che si scrive, per questo cerco di scrivere sempre in gratuità.
La poesia si può imparare a memoria. È così che diventa di tutti.
È una forma di resistenza perché ti insegna a sentire le cose senza appropriartene: illumina le cose da dentro e le libera.
La vera poesia, in qualsiasi modo si esprima è sempre fuori mercato. Ed è pericolosa, e disturba il potere.

“Magicien de l’insécurité” diceva René Char, il poeta della luce solare, come lo chiamò Camus. Come dire che nonostante l’incertezza e il limite bisogna avanzare comunque, senza cercare spiegazioni o definizioni ultime. A partire dal denudamento, dalla debolezza, dal dubbio. Dal mistero perturbante della realtà che alle volte si frantuma durante il cammino.
Dal balbettio dello stare al mondo che però tra le mani del poeta si trasforma in coniglio tirato fuori dal cilindro.
Ma anche: “Scrivere versi è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso…”.
E in ‘Canto d’aprile’, invece, quasi un’ode al “principio speranza”: “Noi cantiamo perché teniamo duro / il nostro morire è per il nascere dei figli / quando cantiamo alziamo lontano / dal buio del bosco al cielo d’aprile / il fuoco del nostro sangue, per il domani”.
Momenti di sconforto e momenti di speranza: “Andare più avanti degli altri senza escludere nulla” diceva ancora Camus di René Char.

Scrivere poesia è una caccia al buio. Devi, prima di tutto, dotarti degli strumenti della caccia, conoscere il più estesamente possibile tutte le malizie retoriche, sapere quale è la sostanza fonica dei versi (sì, parlo proprio di “sostanza”) cogliere la linea di conflitto che si sviluppa tra “istituzione” (il metro) e “individuo” (il ritmo) e anche quando hai imparato tutto questo sei solo, nella tua caccia, sprofondato nel buio. Perché la poesia è un fenomeno, né più né meno che una grandinata, una tempesta, una brezza sottile. È l’unicorno che decide solo lui quando e dove apparire. Allora a chi scrive poesia resta la postura all’ascolto, un modo di essere nella parola, nei segni, che favorisca l’incontro. E quando dico che scrivere è coltivare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, alludo a uno dei mandati propri della poesia: che è quello di raccogliere in sé almeno una scintilla di assoluto. Ecco il principio della speranza.
Purtroppo siamo umani e, quindi, immersi in un mondo di relativi: cadiamo sempre a un passo dall’assoluto. Ma il fallimento conseguito è impegnativo e vitale. Pensa all’Ulisse di Dante.