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Hans Kitzmüller - La mia ala è pronta al volo

La mia ala è pronta al volo

È una casuale coincidenza temporale a fare sì che il titolo del nuovo libro di Danilo De Marco sembri un richiamo dell’immagine finale dell’attuale best-seller di Erri De Luca, dove un misterioso personaggio la notte di Capodanno spicca il volo dal quartiere napoletano di Montedidio alla volta di Gerusalemme dispiegando finalmente le sue enormi ali a stento sino a quell’attimo celate. Se la coincidenza editoriale è casuale, non del tutto ingiustificata è invece quell’associazione.        Le affinità profonde fra Erri e Danilo convergono, infatti, in un comune particolare sguardo sulle cose. La mia ala è pronta al volo si intitola quest’ultima fatica libraria dell’ormai sempre più noto fotografo friulano. In realtà De Marco estrapola una propria frase da una conversazione con Jean Baptiste Chavannes sull’infernale situazione politico-sociale che oggi regna ad Haiti. Ma lo scrittore napoletano alla fine centra poi lo stesso. Sotto il titolo si legge, appunto, con accompagnamento di Erri De Luca. Non solo dunque un’introduzione dell’amico, ma quasi un nuovo spiccare il volo in sua compagnia.
Ad un certo tipo di artista o intellettuale si adatta bene in ogni caso l’idea di una ‘angelicità nascosta’. Handke e Wenders hanno avuto la spudoratezza di dichiarare apertamente questo presunto status attraverso una rappresentazione visuale che comunque è risultata poi un capolavoro della cinematografia: Il cielo sopra Berlino. Quella dell’angelo è infatti la consapevole condizione della presenza muta, della tetimonianza non accompagnata dal giudizio perchè di per sé univoca, non soggetta cioè a interpretazioni diverse. Così come lo è la constatazione del dolore, dell’ingiustizia, della violenza. Danilo De Marco ha in testa però una particolare specie di angelo, che è piuttosto quello raffigurato da Paul Klee e descritto da Walter Benjamin, uno dei suoi fortissimi riferimenti letterari: un angelo che si allontana da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ed è una tempesta che spira dal paradiso ad impedirgli di richiudere le ali, per cui continua inarrestabile ad essere sospinto nel futuro pur volgendo ad esso le spalle,  “ mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo .
De Marco non è però affatto quel che in tedesco si dice un Kulturpessimist. Se si indigna nei confronti di chi cede alla tentazione di desistere, incrollabile è comunque la fiducia in ciò che fa: il credere nella potenziale amicizia possibile in ogni parte del pianeta, quella cioè che è forse l’unica legge capace di salvare il mondo. Brecht la chiamava Freundlichkeit.           A leggere i racconti di Danilo vie da chiedersi se ci rendiamo veramente conto dello stato in cui si trova il nostro mondo, se riflettiamo cioè veramente sul genere di responsabilità che l’Occidente dovrebbe assumersi nei confronti del resto dell’umanità. Un obbligo morale che gli deriva dalla detenzione di straordinarie capacità tecnologiche e di ricchezze accumulate spesso a danno di popoli lontani.
Inquadrano subito Danilo De Marco le foto e il reportage con cui egli ad esempio denuncia la situazione di sfruttamento e il possibile genocidio del popolo indigeno colombiano degli U’wa da parte di una grande multinazionale del petrolio. Francesco Cevasco del Corriere della Sera lo ammette e riconosce che Danilo è anche un grande giornalista e che i suoi resoconti sono dei veri ‘calci nel sedere’ rivolti al giornalismo sedentario delle redazioni e a quello latitante dell’indagine della ricerca slegata dalla bruciante attualità.
Libro sull’ubiquità di Danilo De Marco, in un certo senso questa raccolta di interviste, articoli e reportages si legge dunque anche come una relazione sullo stato del mondo, quello più vasto e quotidiano che non trapela dalle pagine dei giornali dedicate soltanto ai luoghi in cui le situazioni esplodono. Ci si chiede allora cosa sia successo, perché tutto si aggravi invece di migliorare. Il lavoro di Danilo è un continuare ad interrogarsi sulla possibilità della giustizia.
La mia ala è pronta al volo non è un libro di foto - peraltro bellissime - bensì di scritti che dimostrano il talento che il suo autore rivela anche con la penna.   Lui si schernisce: Sono un fotografo e basta. Intanto questo suo volume uscito ora non è solo straordinario e interessante, ma anche scritto molto bene.
Avevamo imparato a conoscere e ad apprezzare la sua fotografia con la mostra e il libro Il sale della terra. Le inquadrature scelte dal suo obiettivo non erano quelle di uno sguardo documentario da voyeurismo terzomondista. Ciò che distingueva le sue foto da quelle di molti altri era lo sguardo delle persone ritratte, uno sguardo che trasmette il senso di un’amicizia ancora possibile. Questa la fiducia a cui accennavo prima: persone ‘di un altro mondo’ in questo stesso mondo che ti guardano mentre li osservi. Ma il loro, è uno sguardo rassicurato nei confronti di Danilo, nulla di carpito, ma concesso con confidenza, non un mettersi in posa ma un salutarsi dopo essersi detti chi si è.
Sono anni ormai che la mia ala ha preso il volo soprattutto per le Americhe, ribadisce Danilo in quella chiacchierata con Jean Baptiste Chavannes. In una serie di libretti pubblicati dal Gallo Forcello del centro Menocchio, Danilo ha già ampiamente documentato le sue esperienze in America centrale e meridionale. La guerriglie, come gli rivelava Carlos Montemayor, in Sudamerica originariamente interpretata come fenomeno rivoluzionario di matrice ideologica, è invece volontà di riscatto di popoli espropriati della propria terra, gli indios.
Non è un utopista o un idealista questo fotografo che non commercia in immagini schock, ma si limita a mostrare allo stesso tempo come il mondo è e come potrebbe essere ancora.
Gli scritti raccolti in questo volume risalgono agli anni fra l’89 e il 2001. Fra le interviste di grande interesse si rivelano quelle con Gisèle Freund, con Predrag Matvejevic e con Ignacio Ramonet, questa sul tema della comunicazione come grande superstizione della modernità.
Il viaggiatore Danilo rivela anche le sue doti di narrratore in particolare in Lamaserìa di Labelung, un viaggio in Cina. Ogni tema trattato è un altro tassello di un mondo esplorato con curiosità e voglia di capire e ogni personaggio intervistato fa il punto su un aspetto diverso di fine e/o di inizio millennio.
È grossa come una Bibbia e fitta fitta di indirizzi e numeri l’agenda telefonica sdrucita che Danilo porta sempre con sé in tasca, voluminoso registro e riscontro di una rete mondiale di relazioni e incontri, di conoscenze e amicizie fatte in un continuo andare e tornare per ogni dove. Per cui non sorprende che per esempio su desiderio di un viticultore del Collio possa portare via con sé qualche bottiglia di bianco da recapitare personalmente a Peter Handke a Parigi o che approfitti di un amico in partenza per l’Ecuador e lo incarichi di consegnare brevi manu una sua foto al presidente dei campesinos o di comperare in un certo negozio della città vecchia di Quito una camicia da garibaldino da donare poi a Erri De Luca, di quelle che pare si trovino solo lì, di quel rosso che si intona così bene con la pelle scura e i capelli nerissimi degli indios andini.
L’affetto ma anche la segreta ammirazione per la libertà di Danilo traspare dai giudizi pubblici dei suoi amici eccellenti.       In relazione a quel suo personale volontariato nell’impegno per l’informazione è però Erri De Luca ad aver detto la cosa più concreta e meno retoricamente affettuosa:  È un fotografo randagio. Perché gira da solo per il mondo di sua iniziativa, non inviato da nessuno. Va precisato e aggiunto che è un randagio anche perché, da reporter di razza senza padroni, si affida solo al proprio fiuto e al proprio istinto.