Parole

Erri De Luca - Zanzibar/Mondine d’Africa

Penso alle mondine sui campi allagati del riso. Fazzoletto in testa a protezione del sole e degli insetti, gambe in acqua tutto il giorno a togliere erbacce intorno alla delicata piantina in crescita.Lavoravano un’ora in più degli uomini, pagate di meno. Erano braccianti di acqua dolce. Il genio contadino della specie umana ha piantato ovunque. Adesso imparo che anche il mare è lavorato a campo.

Donne di Zanzibar, l’isola degli schiavi e delle spezie, davanti alla costa della Tanzania, piantano e coltivano alghe nell’Oceano Indiano. Le loro gambe se ne stanno a mollo nel salmastro lungo l’arco del giorno, i loro corpi trascinano a riva i sacchi del raccolto. Le alghe essiccate al sole perdono quasi tutto il loro peso, che è venduto a secco. Buffo il progresso del mondo, che scopre il valore commerciale di uno dei più antichi organismi viventi della terra. L’alga fu così diffusa, da procurare in una remota era geologica perfino glaciazioni.

Oggi se ne estraggono qualità per prodotti di bellezza. Oggi le alghe gonfiano i guadagni dell’industria cosmetica, che sfrutta la lusinga dell’eterna giovinezza. Allisciano l’epidermide di chi si può permettere l’acquisto della specialità a spese della pelle corrosa di un numero segreto e sconosciuto di donne contadine dell’Oceano. Parlano la lingua swahili della costa orientale del continente Africa, che imparai mezza vita fa durante un periodo di lavoro gratuito in un villaggio della Tanzania. Ricordo che chiamano il mare «bahari», il cielo «angani», la terra «ardhi». Il verbo amare si dice «kupenda», Dio è «Mungu». Ho in testa, conficcate da qualche parte della nuca, le risate delle donne che venivano al pozzo, sopra il quale una pala a vento procurava nel tubo il vuoto per risucchiare in superficie l’acqua. Riempivano le anfore, le giare, i vasi, i recipienti vari, venendo da lontano. Poi si accovacciavano a terra, facendosi posare dalle altre il carico sul panno arrotolato della testa. Si sollevavano poi dritte e leggere, avviandosi scalze verso il loro ritorno. Ridevano d’allegria per il dono dell’acqua procurata da noi, pallidi spaesati della specie assai varia e assortita degli umani. Il corpo delle donne era servo dell’acqua, della terra, degli uomini, dei figli. Era capace di reggere il peso del mondo in perfetto equilibrio sulla testa senza perderne una goccia.

Ora ritrovo quei corpi nelle inquadrature del buon vagabondo Danilo De Marco. Lui non ruba scatti, non scippa la forma di un corpo senza il permesso e l’invito. Prima di usare la sua vecchia reflex da pellicola, sta da pellegrino accanto alla sua tappa, consumando il lento intervallo di ogni accoglienza. La sua premura mi riporta a un mio tempo di vita severa, esposta al sole dei 7 gradi di latitudine a sud dell’Equatore, spiccicando sillabe di lingua swahili.
Per rimborso a sera masticavo un piatto di farina di manioca, dei legumi e piccole banane dolcissime, inguaiate dall’insidia dell’ameba e delle dissenterie. Allora era al governo della vita il verbo condividere, che non arriva a fare parti uguali, ma vuole avvicinarsi a quel traguardo estremo. Perciò stanno piantate sotto la superficie dei miei sensi, le risate delle donne dei villaggi al pozzo,
i loro denti musicali più dei tasti del pianoforte. Nel bagagliaio delle felicità ritrovo l’eleganza pura dell’anfora che ondeggia a ritmo di milonga sopra i corpi delle donne, come un loro leggero copricapo. Ritorna mentre scrivo, la grazia del loro portamento che nessuna indossatrice al mondo potrà pareggiare.