Parole

Claudio Magris - Il sale della terra

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Danilo De Marco ci ricorda che il volto dell’uomo assomiglia alla terra. Nelle sue fotografie -che prediligono il viso umano e l’epica storia di dolore e dignità che vi è scritta- i volti sono segnati da pieghe come i campi da solchi umidi di sudore, sono scavati dalle intemperie naturali e sociali come tronchi rosi dalle piogge, illuminati da sorrisi chiari e luminosi come una sorgente d’acqua o un cielo limpido e ventoso. De Marco è un poeta e un narratore della dignità dell’uomo, della sua umiltà nel senso etimologico della parola, che proviene dal latino humus , terra; ci rammenta concretamente - con la semplicità diretta, fisica della poesia, che non ha bisogno di prediche né di professioni ideologiche- che l’uomo, come dice il Genesi, è stato fatto con la terra e può averne la bontà e la dignità.
De Marco va a cercare quest’ultime là dove si potrebbe credere che sia più difficile trovarle, dove potrebbero essere sfigurate e rese irriconoscibili dalla sofferenza. E’ andato a cercarle e le ha trovate nei volti degli angosciati contadini messicani, dei curdi braccati e perseguitati sino al massacro, dei cinesi e dei tibetani minacciati da miseria e oppressione, dei Sans-Papiers di Parigi che vivono a fondo l’esilio e la condizione universalmente umana di essere nessuno, dei Sem Terra brasiliani, i senzaterra privi di tutto ed esposti ad ogni infame brutalità. Le sue fotografie sono un’epifania di utopia e di speranza. Gli uomini, le donne, i vecchi e i bambini che egli ritrae sono, quasi sempre creature che vivono in condizioni di inaudita sofferenza e privazione, schiacciati tra povertà plurisecolare e bruciantemente attuale, incalzati da violenze senza nome da parte di sfruttatori, padroni, schiavizzatori, Stati e potentati di ogni genere, tutti predoni feroci.
Ci si potrebbe facilmente immaginare che questa gente che non ha nulla - gente cui è stato e viene tolto tutto, che viene brutalizzata, martirizzata e anche assassinata, cui è stata rubata ed espropriata la vita stessa - sia anche abbrutita, spenta, disumanizzata, perchè l’ingiustizia e la violenza spesso imbestiano le vittime. Anche, anzi soprattutto per questo bisogna lottare contro l’ingiustizia e la violenza, per liberare materialmente e pure spiritualmente le vittime, per restituire loro l’umanità rapinata e mutilata, la loro essenza umana conculcata.
Su quei volti, De Marco scopre e libera, come un mago benefico, una luce incorruttibile d’umanità e di dignità, una forza e una vita indistruttibili. Anzitutto quei volti di dannati della terra, di genti ai margini della civiltà, della società e della cultura, appaiono, nelle sue fotografie, il ritratto stesso dell’universalità umana. Il loro è il volto dell’uomo, al loro confronto, le facce degli altri - non solo quelle dei loro abietti persecutori, ma anche quelle banalmente, convenzionalmente e decorosamente normali, le nostre - risultano maschere, facce prese a prestito, anonime e interscambiabili come cappelli pur di buona fattura, visi di chi non vive veramente la sua vita, ma rappresenta una parte e sta al posto di un altro, come la controfigura in un film.
Quei vecchi generosi e indomiti di De Marco, sacri arcaici e perenni come pietre, quegli uomini silenziosi e insondabili, quelle donne col bambino al seno - immagini di Maria come nessun’altra - quei bambini dal sorriso incantevole e regale come il sorgere del sole, sono il sale della terra.
Grandeggiano - nei loro semplici gesti, nelle mani forti e amoroso, nei loro oggetti pieni di senso - sui miserabili aguzzini sfruttatori. Quegli oppressi non sono dei vinti; sono dei combattenti; tenaci come l’acqua, sono i veri uomini. Guardando le loro immagini, ci si chiede se, dopotutto, quella frase del Vangelo, che dice che gli ultimi saranno i primi, non possa essere forse vera.
Le fotografie di De Marco, immagini creative ma non arbitrarie o capziosamente costruite bensì fedeli del mondo, sono una prova dell’esistenza della speranza, una dimostrazione che l’utopia, il miglioramento e il riscatto dell’umanità non sono una chimera, ma una realtà. La fotografia ne dimostra l’esistenza, è una prova della sua esistenza al tribunale della storia. Un senso religioso dell’uomo si fonde inestricabilmente con una precisa raffigurazione sociale, che dice nomi e cognomi dell’ingiustizia e della verità.
Quei volti sono inconfondibilmente individuali e insieme fraternamente uniti in una coralità; non nella collettività pittoresca e regressiva di un’etnia, di una cultura esotica o di una minoranza vezzeggiata con la retorica del “piccolo” o del “diverso”, bensì nella semplice, complessa e grande coralità umana. Quel legame fraterno li unisce anche al paesaggio, perchè pure il paesaggio è uno specchio del nostro volto e anzi il nostro volto stesso, lo sfondo in cui la nostra vita si colloca e trova la sua proporzione e il suo significato. Posso dirlo con particolare autorità di testimone, perchè De Marco ha dato volto, in alcune mirabili fotografie di un libro cui io ho aggiunto solo alcune parole a piè di pagina, a un paesaggio marino fondamentale per la mia vita e, in esso, alla persona che, condividendo la mia vita, le ha dato senso ed è divenuta, nonostante lo strappo estremo della morte, indissolubile dalla mia vita e dal suo senso.
E’ molto bello, per me, che anche quel volto faccia parte di quel coro fraterno di visi che sanno risplendere dalla più fonda oscurità.