Parole

Antonio Muñoz Molina - Il nostro Magris

Nella laudatio che Fernando Savater fece di Claudio Magris, quando fu proclamato dottore honoris causa a Madrid, usò quella calda espressione, ‘il nostro Magris’, con la quale io mi identificai non appena la lessi, anche se soltanto adesso mi fermo a pensare con più attenzione al suo significato. Non è solo che uno, come lettore e cittadino, ammiri Claudio Magris, né che abbia avuto l’occasione di godere della sua generosa vicinanza. È che Magris lo sentiamo come ‘nostro’, a differenza di altri scrittori che pure ammiriamo e dai quali pure impariamo. Ma chi include quel noi che usa Fernando Savater e nel quale subito io mi riconosco, malgrado sia così poco amico delle affiliazioni collettive? Credo che sia, in primo luogo, il noi di chi è stato educato alla fine della Spagna franchista, quando sentivamo molto nostra una certa Italia, forse in parte illusoria, che era lo specchio di molte cose alle quali aspiravamo: un’Italia di rigore intellettuale e dal dibattito politico appassionato e aperto, con la vitalità democratica che a noi mancava e con una salutare gioia di vivere, l’Italia del compromesso storico, di Umberto Eco, di Giulio Carlo Argan, che alla fine degli anni Settanta era uno dei miei eroi intellettuali – sindaco comunista di Roma, storico dell’arte di un’erudizione e di una flessibilità intellettuale tali da essere il potente antidoto alla sociologia marxista a buon mercato che veniva somministrata nelle università spagnole a quelli che come me cercavano di imparare qualcosa in quella disciplina. Io studiavo italiano sui libri di Argan e di Bianchi Bandinelli e attraverso film meravigliosi che arrivavano dall’Italia in versione originale, i quali sembravano aver risolto il conflitto tra qualità estetica, impegno politico e successo popolare.
Quella era la nostra Italia; non avremmo chiamato così nessun altro Paese, sebbene ci piacessero romanzi e film francesi, e sebbene la cultura popolare americana fosse così importante per molti di noi.
Quell’Italia, tristemente, è scomparsa dai nostri orizzonti, anche perché c’era in lei una parte di miraggio, del nostro desiderio di diventare migliori emulando i valori immaginati negli altri. Ciò che in lei era sostanziale e vero continua ad alimentarci. Continuiamo ad amare il grande cinema italiano, anche se non siamo molto aggiornati sille ultime novità e, sebbene alcuni dei fantasmoni intellettuali di allora siano scomparsi senza lasciare traccia – da giovani siamo stati dei gran seguaci di una forma di alto vaniloquio coltivato intensamente in Italia e in Francia –, alcuni nomi centrali si mantengono intatti, malgrado appartengano al passato. Chi fa sì che la nostra Italia continui a essere presente e non solo un ricordo è Claudio Magris.
Ma il noi che reclama Magris come nostro non identifica solo una generazione, e una generazione spagnola, per giunta. Sentiamo come nostro Claudio Magris perché riconosciamo in lui, nella sua scrittura e nel suo comportamento pubblico, un modello che ci aiuta a orientarci in una confusione propria della nostra epoca, nella quale nozioni, figure e interi regimi che sembravano molto solidi si sono dissolti nell’aria, per citare il dettame di Marx. I regimi sono quelli comunisti; la figura è quella dell’intellettuale impegnato, guru politico ed esempio etico; la nozione è il progetto utopico di correggere la povertà, l’ingiustizia e lo sfruttamento mediante l’istituzione di un paradiso terrestre, in nome del cui avvento era lecito e persino necessario incorrere nel crimine, individuale e collettivo.
Certo che tutte queste rovine esistevano già prima del 1989, ma la caduta del muro di Berlino le ha rese visibili con la sua formidabile capacità di metafora. La risposta di quelli che potremmo chiamare ‘i nostri’ (scrittori di sinistra, intellettuali progressisti in senso ampio) oscillò in generale tra due posizioni: la lamentosa nostalgia dei contumaci e la disinvoltura cinica o sinceramente entusiasta dei convertiti (ci furono, ci sono, quelli che si ingegnano a essere assieme contumaci e cinici, approfittatori e predicatori, ma non è questo il luogo per occuparsi di loro, e in ogni caso tutti possiamo citare più di un nome). Per i contumaci, l’evidenza degli abusi del gulag era un inconveniente minore, e ogni riconoscimento degli errori e dei crimini della sinistra continuava a essere una capitolazione di fronte al nemico; per i convertiti il capitalismo di rapina e l’onnipotenza militare degli Stati Uniti meritavano lo stesso fervore militante che non molti anni prima loro stessi avevano sentito verso il delirio trotzkista della rivoluzione mondiale. I contumaci possono lamentare il terrorismo islamico ma tendono a considerarlo una comprensibile reazione agli abusi dell’Occidente; i conversi lo vedono come una prova dei pericoli che minacciano la civiltà occidentale a causa del fanatismo congenito dei suoi nemici e della mollezza multiculturale che l’ha pervasa.
Claudio Magris lo sentiamo molto nostro perché ci ha aiutato a trovare una posizione etica e politica lontana da questa soffocante disgiuntiva. Diffidiamo delle utopie salvatrici, ma ciò non ci impedisce di vedere le ingiustizie che si commettono nel mondo né di cercare forme razionali per correggerle, sapendo, questo sì, che l’intelligenza e la capacità di azione umana hanno seri limiti, che la realtà è sempre troppo complessa per essere affrontata con ricette chiare e semplici, che l’impulso verso la generosità e la concordia negli esseri umani non è più potente di quello che può portarli, a seconda delle circostanze, all’avidità e all’odio. Con Magris abbiamo appreso che la speranza è tanto legittima quanto il timore; e che per questo importano valori ai quali un tempo non abbiamo fatto molto caso, come la buona amministrazione, il rispetto della legge democratica, la misura. Ci ha insegnato a situarci in una posizione spirituale di frontiera, non di centro, di equilibrio instabile e non di sicurezza; ciò non vuol dire che dobbiamo diventare relativisti o tiepidi, ma che ogni caso, ogni circostanza, richiede da noi l’esame più completo e attento, e che le certezze eccessive, come le frontiere chiuse, sono sempre pericolose.
Quest’etica dell’avvicinamento curioso, del tentativo, della ricerca, si è convertita in lui in un’estetica, in una scrittura flessibile e in perpetua trasformazione, che, invece di ascriversi in anticipo a un solo genere, li attraversa tutti con una disinvoltura che le permette di approfittare delle risorse di ognuno eludendone le servitù retoriche: il racconto di viaggio si converte in cronaca, la cronaca in confessione personale, la confessione scorre seguendo un affluente erudito, l’erudizione è toccata dalla temperatura dell’esperienza umana, la contemplazione sfocia nella riflessione politica o si concentra su un dettaglio minimo che lo sguardo ha scoperto. La scrittura non riflette il fluire perpetuo delle cose, lo incarna, come una musica, come il gran Danubio che è il fiume di Eraclito e il fiume di Claudio Magris.

da Claudio Magris Argonauta a cura di Danilo De Marco e J.A.González Sainz
fotografie di Danilo De Marco
Forum Editore