Parole

Tito Maniacco - Mémoires de L’œil “La lampada del corpo è l’occhio” - Matteo, 6.22

“La lampada del corpo è l’occhio” - Matteo, 6.22

All’ inizio, quando dai misteriosi liquidi alchemici emerse, terrosa e tremolante, un’ immagine catturata dall’improvviso aprirsi-chiudersi di un occhio di vetro molato (il monocolo senza palpebra come simbolo dell’essenza e della conoscenza divina), sembrò che la pittura fosse morta e che un occhio gelido, impassibile, oggettivo-oggettivo, senza emotività e aideologico l’avesse sostituita. Il nitrato d’argento come un tempo il colore a olio che tanto aveva affascinato Antonello. Ma l’uno sembrava essere l’ultima Thule della rappresentazione arbitraria dei due occhi del pittore, l’altro un ulteriore strumento d’analisi dell’animo umano.

Naturalmente non fu così. Delacroix non cessò di interessare Baudelaire, Nadar interessò Zola quanto Cézanne, e Picasso non contestò lo spazio a Kertész.
Insomma era nata un’altra arte della rappresentazione. L’ unica osservazione che si può oggettivamente fare è che, visto l’irrefrenabile sviluppo della fotografia nell’epoca della riproducibilità tecnica - Benjamin dixit -, si dilatò fino all’inverosimile l’ossessiva quanto inquietante mania dei babbei d’immortalare -oh Goethe- l’attimo fuggente.
Così, andare in giro per il mondo con un occhio maligno e obbediente (obbediente?) sotto il braccio, divenne quel che oggi si dice un hobby. Come cacciatori danarosi e senza capacità (potremmo dire senza predestinazione) sparavano a tutto, ma la selvaggina scarseggiava.
De Marco, che della macchina fotografica è un ideologo viandante (mai visto un pellegrino, Mecca o San Jacopo de Compostela, privo di ideologia), viaggia. Viaggia in autobus affollati di uomini e donne, bambini, porcellini e galline e biciclette legate su tetti roventi del Messico o del Brasile o gelidi della Cina del nord e, rubando immagini, ci restituisce il senso del viaggio e in maniera inestimabile, il senso di un’esistenza umana.
E’ evidente che l’occhio appiattisce, mentre è il cervello che ricostruisce il volume, perchè l’uno guarda e l’altro vede. Che cos’è poi il volume se non la ricostruzione di una sequenza di neri che non sono mai tali e non sono mai fine a se stessi? Sono neri con anime diverse, con sfumature diverse. Che cos’è il volume se non la ricostruzione e la ricostruzione di un colore inesistente come il bianco? E che cos’è la sequenza immagine che ci compare davanti agli occhi se non una serie complessa di compromessi tecnici, tattili, volumetrici e ideologici?
L’ ideologia è misteriosa come il nano che sta nascosto nel grande automa giocatore di scacchi di cui parla Benjamin. L’ automa può vincere solo se ha al suo servizio l’ideologia che, come la teologia, è piccola e brutta, non deve farsi scorgere da nessuno, specialmente in tempi come questi, ma fornisce quella divorante passione per l’uomo, per il suo lavoro e per i rapporti del suo lavoro con i modi e i mezzi di produzione, con lo sfruttamento e la lotta ad esso. Come immaginarsi altrimenti l’altera dignità della donna dell’ organizzazione campesina alle cui spalle campeggia il ritratto (ma non è un fondale, è il sogno di una cosa, è l’occhio di Dio che contempla l’ Ivan il terribile di Ejzenstejn) di Emiliano Zapata?
Oh certo, la foto è bellissima potenzialmente in se, ma è l’ autocoscienza del rapporto fotografo-realtà sociale che fa innestare il processo di costruzione dialettica, certo indissolubile dalla sua forma, si che la donna diventa se stessa e simbolo. E’ per sé (für sich, direbbe Marx) ed essendo per sé, diventa per noi, come per noi diventa la campesina messicana che indica alla bambina, con il machete, qualcosa di quotidiano, forse, ma diventando per noi, il quotidiano è un simbolo, è un segno, come un segno sono i minatori di carbone del Brasile che paiono uscire, neri e scintillanti dall’ inferno, o i guerriglieri curdi, o il dimesso e povero brusio di un villaggio della Cina del nord dove ogni gesto consueto è il moto fermato icasticamente di un rito e di un senso della vità.
Queste immagini sorgono come angeli vendicatori da ogni lato dell’ orizzonte che circonda la Librogalleria al Ferro di Cavalllo di Roma, e sono lo specchio impassibile di quanto sia stupida e arrogante e frivola l’ eleganza priva della sua anima che, in fondo, segretamente o no, a voce alta o pigolando è sempre stata delle cose, trasformazione, ideologia.